GIOVANNI TESIO, TUTTOLIBRI - La Stampa 24/7/2010, pagina VIII, 24 luglio 2010
INTERVISTA A GIORGIO BARBERI SQUAROTTI
Ottant’anni di età, trentasette di insegnamento universitario, almeno settanta di letture. Giorgio Bárberi Squarotti è scrittore e poeta (Il giullare di Notre-Dame des Neiges è appena apparso presso la romana Edilet con una nota critica di Aldo Onorati). Ma il suo nome resta legato in primo luogo alla critica letteraria: sia come lessicografo (sua, dopo Salvatore Battaglia, la responsabilità del Grande Dizionario della Lingua Italiana della Utet), sia come docente, sia come saggista. Un intero e minuzioso percorso nei secoli delle patrie lettere, da Dante, Petrarca e Boccaccio a Verga, Pascoli, D’Annunzio, da Marino e i marinisti a Gozzano e i crepuscolari, dai poemi cavallereschi alla poesia del Novecento, da Pirandello a Pavese e Fenoglio. Una fitta trama di nomi, vicende, secoli.
Poco Settecento, o sbaglio, nella sua bibliografia?
«Ho sempre pensato che la letteratura del Settecento sia in Italia intrinsecamente minore. Lirici arcadici o narratori modesti. Allo stesso Goldoni preferisco i due Gozzi oppure i bizzarri come Baretti. Ma siamo comunque in un ambito minore. Non dico del Giorno, ma se penso alle Odi del Parini, mi viene in mente la fatica con cui secondo il programma ministeriale fui costretto a parlarne l’anno di insegnamento all’Università di Strasburgo. Il più grande è l’Alfieri. L’Alfieri tragico, il lirico, il trattatista. E nemmeno le Satire sono da sottovalutare».
Se facciamo un balzo e le chiedo cosa sta leggendo in questi giorni?
«Sto rileggendo alcuni episodi dell’Orlando Furioso perché vorrei tornare a scrivere di Orlando matto. Sto anche dedicandomi alle tragedie di D’Annunzio, che trovo molto fertili. Ad esempio ho riscontrato una battuta della Fiaccola sotto il moggio che consente un utile rimando a Corazzini e al crepuscolarismo. Così come riscontro l’uso abbondantissimo del linguaggio biblico nella troppo deprecata tragedia Più che l’amore, un linguaggio che diventa fondamentale per capire a fondo».
Viene sempre il sospetto che un critico legga per scrivere. Che legga in modo, per così dire, strumentale.
«Ma no. La lettura è anzitutto un piacere. Leggere per dovere mi è sempre sembrato un po’ triste. Mentre mi piace scegliere io le letture e rileggere una due tre volte. Ho riletto tre volte la Recherche, certo non per dovere, ma per piacere. Se c’è una cosa che mi rattrista è dover leggere i libri in lizza per lo Strega, perché mi sembrano tutti uguali. Sarà che invecchiando starei sempre in compagnia di Sterne o di Proust?».
Di Proust ha già detto. Di Sterne?
«Sterne è un romanziere straordinario. Penso al Tristram Shandy, trecento pagine di premessa come divertimento continuo. Un’infinita digressione narrativa. Ma ammiro anche un romanzo come Horcynus Orca, un’impresa che continua a sembrarmi eccezionale. Anche Joyce e Musil sono stati letture fondamentali».
Affrontate a quale età?
«Subito dopo la guerra, a cominciare dal liceo. Una decina d’anni di letture accanite: Dante, Shakespeare, Melville, tutti i grandi fino a Pirandello, a Pavese, a Vittorini, alla scoperta di Gadda. Scoprii Il castello di Udine per caso e da lì sono partito per andare in cerca di tutto il resto. C’è da dire che per certe letture il tempo non era per nulla favorevole, ideologismi asfittici liquidavano tutto come decadente».
Come lettore è stato precoce?
«Direi di sì. Già alla scuola media e al ginnasio, che ho frequentato a Mondovì e a Bra, leggevo molto grazie alle premure di alcuni professori illuminati che prestavano i libri della loro biblioteca. Quelli erano tempi in cui acquistare un libro poteva risultare difficile. Ho letto allora Saba, Ungaretti, Montale».
Niente deroghe? Niente fumetti?
«Come no? Jacovitti mi ha sempre divertito. E anche Topolino. Ancora adesso mi diverto a leggerne qualche episodio. Fumetti non tetri e neanche troppo avventurosi. Ironici, direi».
Proviamo a fare un gioco un po’ crudele. Vassalli ci ha raccontato nella sua vita di Campana che compare un poeta ad ogni apparire di cometa (di Halley). Se lei dovesse indicare un poeta per ogni secolo della nostra letteratura?
«Se di gioco si tratta, dico: Cavalcanti, metto insieme Dante e Petrarca, Pulci, Ariosto, Marino, Alfieri, Leopardi, ma poi ancora insieme Pascoli, D’Annunzio, Montale».
E se dovesse dire un nome secco di critico letterario?
«Anche qui, giocando, dico Giacomo Debenedetti, anche quando non sono d’accordo con certe sue interpretazioni. Ma poi mi lasci aggiungere George Steiner tra gli stranieri e tra gli italiani Carlo Bo, Gianfranco Contini, Giovanni Getto, che mi ha insegnato moltissimo».
Non Dionisotti?
«Filologo straordinario e anche una cara persona. Ma le sue indicazioni risultano pericolose perché sono state troppo facilmente imitate. Penso all’idea che la letteratura italiana sia frutto di voci regionali, addirittura provinciali. Vero in Dionisotti e in personaggi come lui, ma in generale tutto questo ha provocato un disastro universitario, favorendo una quantità di giovani che disseppelliscono dall’oblio autori locali che il tacere sarebbe pur bello».
Lei è uno dei critici più rappresentativi dei nostri anni, ma ha anche scritto una quantità di prefazioni a poeti non sempre così raccomandabili. Ne è valsa la pena?
«Penso di sì, perché in ogni poeta che ho deciso di prefare ho trovato una forma di resistenza al pericolo che la letteratura, non dico scompaia, ma - come sta accadendo - diventi sempre più secondaria. In queste condizioni, anche la quantità può aiutare a sperare non solo nella nostra letteratura ma nella nostra stessa vita».
Guido Davico Bonino ha pubblicato recentemente un libro anche polemico che s’intitola «Tiro libero». Se lei dovesse scrivere un libro analogo, quali sarebbero i suoi bersagli?
«Intanto l’idea diffusa di canone, e cioè che si deva fissare i dieci, quindici autori imprescindibili. La trovo un’idea esecrabile che ti mette di fronte a una dittatura. Allo stesso modo mi pare che siano criticabili le antologie molto costrittive. Infine penso che troppo spesso si proceda in direzioni minimaliste. Una letteratura fatta di gesti minimi, di minime sensazioni. E anche editori di livello che vanno incontro a queste esigenze da nulla. Mentre io penso che così facendo si sfugga a una responsabilità. La letteratura non deve dirti quello che sai ma quello che non sai, deve andare ben oltre la realtà. La realtà e la quotidianità la troviamo lì, ma la letteratura deve andare oltre, deve darci di più».
Per questo, nel panorama attuale, la interessano più i poeti che i narratori?
«I poeti mi sembrano più incisivi, più interessanti. Mi danno ancora reazioni, commozione. I narratori non mi dicono granché, tranne in rarissimi casi. So bene che anche tra i poeti ci sono quelli che ripetono. Ma altri ne esistono che continuano a darti qualcosa di nuovo. E questa è una soddisfazione notevole».
Facciamo qualche nome?
«Sanguineti, ad esempio, un poeta di intensissimo valore. E poi Viviani, Loi, Baldini, Bertolino, Mundula, Pusterla, Bacchini».
Che ne è del Bárberi Squarotti lettore di giornali sportivi?
«Ho sempre sognato di fare il cronista sportivo, e non solo di calcio, di qualsiasi sport, meno che di quelli motoristici, perché fanno troppo fracasso. Non ci sono mai riuscito e forse è meglio così. I giornali sportivi non li leggo tutti i giorni, ma il lunedì. Li considero la palestra di tutto ciò che si dice possibile e che è citabile e che tale poi non risulta, non è. Del resto lo sport dovrebbe essere un gioco mentre l’eccesso di passione che si applica in particolare al calcio lo trovo triste, tetro. Un po’ come quando un cane morde un bambino e viene data semplicemente la colpa al padrone. L’eccesso di passione per il cane è un po’ come l’eccesso di passione per il calcio».
Vogliamo chiudere con un titolo, uno solo, imprescindibile. Il libro della vita?
«Uno solo, no. Ne dico tre: Omero, la Bibbia, la Commedia».