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 2010  luglio 20 Martedì calendario

GIU’ LE MANI DA BORSELLINO

Quanta gente campa ancora sulla morte di Paolo Borsellino. Quanti ma­­gistrati devono a eroi come lui se han­no avuto largo credito e pubblica fidu­cia. La magistratura italiana per anni ha vissuto sull’eredità di toghe insan­guinate come la sua, godendo di un’au­torevolezza assoluta. Nessuno poteva toccare il ruolo e il prestigio delle to­ghe, dopo il sacrificio di Falcone e Bor­sellino. Quanti politici e giornalisti si fanno ancora belli in suo nome e pre­tendono, al riparo della sua ombra, di stabilire chi sono oggi i mafiosi, i loro alleati e succedanei, e chi sono invece i loro nemici, legittimati a sentenziare. Quante anime belle hanno inzuppato la loro retorica nel sangue di quel magi­strato.
Non sono passati invano questi di­ciott’anni, a giudicare dalle speculazio­ni squallide che si fanno sul suo feroce assassinio. Ieri cadeva il suo anniversa­rio, ricordato dalle massime autorità della Repubblica; e molti suoi postumi seguaci usano oggi il suo nome e la sua morte per imbastire trame allusive, quelle sì di vero stampo mafioso, per delegittimare poteri e governi presen­ti. C’è una vena di sciacalleria in tutto questo e di appropriazione indebita della memoria di un eroe, un martire e un galantuomo. Perché Borsellino non era un giudice d’assalto malato di protagonismo e di furore ideologico, come molti magistrati che abbiamo tri­stemente conosciuto negli ultimi an­ni. Non era amato dai suoi colleghi di Magistratura democratica, era visto con qualche sospetto dalla sinistra li­bertaria. Borsellino non era un giudice giacobino, non cercava popolarità at­traverso clamorosi atti giudiziari, e tan­tomeno pensava di darsi alla politica, di portare all’incasso la sua fama di giu­dice antimafia. Borsellino era davvero un uomo d’onore, nel senso che alla mafia di una volta incuteva timore e ri­spetto; meno alla nuova, più spregiudi­cata e cinica della precedente. Borselli­no era un servitore dello Stato, uno che credeva nell’autorità dello Stato e nel­la missione del magistrato. Non servi­va solo la Repubblica e la Costituzione ma amava la sua patria,l’Italia,a parti­re dalla sua Sicilia. Perché Borsellino era un uomo di destra, fin da ragazzo aveva militato nelle organizzazioni stu­dentesche missine. Il suo miglior ami­co di quel tempo era Pippo Tricoli, sto­rico di valore e uomo di destra. Tricoli mi disse una volta che aveva fatto cono­scere a Borsellino un altro suo valoro­so coetaneo, all’epoca suo Romualdi, intellettuale di prim’ordine ma dalla parte sbagliata, morto poi a 33 anni in uno strano incidente stradale. Erano uomini di destra tutti e tre, prematura­mente scomparsi e coetanei, di quella destra di talento che aveva il senso del­l’onore e che non considerava la coe­renza la virtù degli imbecilli. E che ri­s­chiava per le proprie convinzioni per­ché come scriveva Pound se non rischi per le tue idee o non valgono niente le tue idee o non vali niente tu. Pochi ri­cordano che tre giorni prima della stra­ge di Capaci, durante le votazioni per l’elezione del presidente della repub­blica, i 47 parlamentari del Msi votaro­no Borsellino presidente. Peccato che furono così pochi, lo diciamo col sen­no di poi; forse avremmo salvato un grande uomo e non solo lui, e ci sarem­mo risparmiati Scalfaro al Quirinale.
Sono stati tanti gli eroi e martiri di questa pur ingloriosa Repubblica; e nella lotta alla criminalità siciliana o campana molti caduti furono siciliani, campani e di destra. Tra loro svetta Bor­sellino perché lui andò incontro alla morte con eroico fatalismo, sapendo che ormai una sentenza di morte era stata scritta contro di lui. Conosceva troppo bene la mafia e i mafiosi per non averlo capito. L’agonia di Paolo Borsellino non fu breve, come scrisse­ro le cronache di quel venti luglio, ma durò ben cinquantasette giorni. Per­ché quando fu ucciso Falcone con la sua scorta, il 23 maggio a Capaci, Bor­sellino capì che il prossimo della lista era lui. Lo sentiva, glielo facevano senti­re e lo avvertivano anche coloro che gli stavano intorno e gli osservatori più at­tenti. Andò incontro all’ultimo appun­tamento senza inscenare piazzate, conferenze stampa, movimenti di po­polo e sceneggiate. Aveva la sua scorta ma sapeva, dopo il caso Falcone, che gli uomini della scorta più che scudi, rischiavano di diventare suoi consorti, legati al suo tragico destino, come poi accadde. Così trascorse quella mezza estate del novantadue guardando in faccia il suo destino e i suoi carnefici, senza defilarsi o cambiar mestiere. Un’estate decisiva, che segnò poi la fi­ne della prima repubblica, l’elezione di Scalfaro, lo sviluppo di Tangentopo­li.
Onore a Borsellino, dunque, e beato un popolo che onora i suoi eroi, di cui abbiamo bisogno più del pane, al di là di quella sciocchezza che disse Bertolt Brecht. Oggi sono in tanti, siamo in tan­ti a chiedere che venga fatta luce. Ma risparmiateci per favore quelle fiacco­late di retorica e quei tentativi deliranti di attualizzare il suo assassinio per por­tarlo all’incasso dei nostri giorni. Per­ché come scrisse un grande siciliano, dopo i gattopardi vennero gli sciacal­letti e le iene.