Marcello Veneziani, il Giornale 20/7/2010, pagina 3, 20 luglio 2010
GIU’ LE MANI DA BORSELLINO
Quanta gente campa ancora sulla morte di Paolo Borsellino. Quanti magistrati devono a eroi come lui se hanno avuto largo credito e pubblica fiducia. La magistratura italiana per anni ha vissuto sull’eredità di toghe insanguinate come la sua, godendo di un’autorevolezza assoluta. Nessuno poteva toccare il ruolo e il prestigio delle toghe, dopo il sacrificio di Falcone e Borsellino. Quanti politici e giornalisti si fanno ancora belli in suo nome e pretendono, al riparo della sua ombra, di stabilire chi sono oggi i mafiosi, i loro alleati e succedanei, e chi sono invece i loro nemici, legittimati a sentenziare. Quante anime belle hanno inzuppato la loro retorica nel sangue di quel magistrato.
Non sono passati invano questi diciott’anni, a giudicare dalle speculazioni squallide che si fanno sul suo feroce assassinio. Ieri cadeva il suo anniversario, ricordato dalle massime autorità della Repubblica; e molti suoi postumi seguaci usano oggi il suo nome e la sua morte per imbastire trame allusive, quelle sì di vero stampo mafioso, per delegittimare poteri e governi presenti. C’è una vena di sciacalleria in tutto questo e di appropriazione indebita della memoria di un eroe, un martire e un galantuomo. Perché Borsellino non era un giudice d’assalto malato di protagonismo e di furore ideologico, come molti magistrati che abbiamo tristemente conosciuto negli ultimi anni. Non era amato dai suoi colleghi di Magistratura democratica, era visto con qualche sospetto dalla sinistra libertaria. Borsellino non era un giudice giacobino, non cercava popolarità attraverso clamorosi atti giudiziari, e tantomeno pensava di darsi alla politica, di portare all’incasso la sua fama di giudice antimafia. Borsellino era davvero un uomo d’onore, nel senso che alla mafia di una volta incuteva timore e rispetto; meno alla nuova, più spregiudicata e cinica della precedente. Borsellino era un servitore dello Stato, uno che credeva nell’autorità dello Stato e nella missione del magistrato. Non serviva solo la Repubblica e la Costituzione ma amava la sua patria,l’Italia,a partire dalla sua Sicilia. Perché Borsellino era un uomo di destra, fin da ragazzo aveva militato nelle organizzazioni studentesche missine. Il suo miglior amico di quel tempo era Pippo Tricoli, storico di valore e uomo di destra. Tricoli mi disse una volta che aveva fatto conoscere a Borsellino un altro suo valoroso coetaneo, all’epoca suo Romualdi, intellettuale di prim’ordine ma dalla parte sbagliata, morto poi a 33 anni in uno strano incidente stradale. Erano uomini di destra tutti e tre, prematuramente scomparsi e coetanei, di quella destra di talento che aveva il senso dell’onore e che non considerava la coerenza la virtù degli imbecilli. E che rischiava per le proprie convinzioni perché come scriveva Pound se non rischi per le tue idee o non valgono niente le tue idee o non vali niente tu. Pochi ricordano che tre giorni prima della strage di Capaci, durante le votazioni per l’elezione del presidente della repubblica, i 47 parlamentari del Msi votarono Borsellino presidente. Peccato che furono così pochi, lo diciamo col senno di poi; forse avremmo salvato un grande uomo e non solo lui, e ci saremmo risparmiati Scalfaro al Quirinale.
Sono stati tanti gli eroi e martiri di questa pur ingloriosa Repubblica; e nella lotta alla criminalità siciliana o campana molti caduti furono siciliani, campani e di destra. Tra loro svetta Borsellino perché lui andò incontro alla morte con eroico fatalismo, sapendo che ormai una sentenza di morte era stata scritta contro di lui. Conosceva troppo bene la mafia e i mafiosi per non averlo capito. L’agonia di Paolo Borsellino non fu breve, come scrissero le cronache di quel venti luglio, ma durò ben cinquantasette giorni. Perché quando fu ucciso Falcone con la sua scorta, il 23 maggio a Capaci, Borsellino capì che il prossimo della lista era lui. Lo sentiva, glielo facevano sentire e lo avvertivano anche coloro che gli stavano intorno e gli osservatori più attenti. Andò incontro all’ultimo appuntamento senza inscenare piazzate, conferenze stampa, movimenti di popolo e sceneggiate. Aveva la sua scorta ma sapeva, dopo il caso Falcone, che gli uomini della scorta più che scudi, rischiavano di diventare suoi consorti, legati al suo tragico destino, come poi accadde. Così trascorse quella mezza estate del novantadue guardando in faccia il suo destino e i suoi carnefici, senza defilarsi o cambiar mestiere. Un’estate decisiva, che segnò poi la fine della prima repubblica, l’elezione di Scalfaro, lo sviluppo di Tangentopoli.
Onore a Borsellino, dunque, e beato un popolo che onora i suoi eroi, di cui abbiamo bisogno più del pane, al di là di quella sciocchezza che disse Bertolt Brecht. Oggi sono in tanti, siamo in tanti a chiedere che venga fatta luce. Ma risparmiateci per favore quelle fiaccolate di retorica e quei tentativi deliranti di attualizzare il suo assassinio per portarlo all’incasso dei nostri giorni. Perché come scrisse un grande siciliano, dopo i gattopardi vennero gli sciacalletti e le iene.