Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 17/07/2010, 17 luglio 2010
IO BALLO CON CHICCA, LA MIA GRU - A
Chicca piace danzare con il professore. sempre lei a prendere l’ iniziativa. Gli si avvicina fino a sfiorarlo, lo accarezza con il lungo collo flessuoso, poi arretra di due passi, solleva leggermente una dopo l’ altra le gambe slanciate, spalanca le grandi ali e le agita come se volesse prendere il volo: due passi avanti, uno indietro, un movimento di ali verso destra e pian piano si sposta formando un cerchio con movimenti aggraziati. lei a condurre il ballo. Paolo Portoghesi non fa che imitarla, seguendone i passi, agitando le braccia aperte, lasciandosi trascinare nell’ armonia dei volteggi. Chicca è una gru antigone alta un metro e settanta, ha le piume color cenere, mentre la testa e la parte superiore del collo sono di un bel rosso granata. Vive con l’ architetto e con sua moglie Giovanna Massobrio da quando l’ hanno adottata, sei anni fa. Ha cominciato a danzare dopo qualche mese, non appena ha preso confidenza con il parco in cui vive libera insieme a una popolazione di oltre settecento uccelli di specie diverse. Portoghesi, che è un signore molto timido e uno studioso molto serio, non ha avuto la forza di sottrarsi all’ invito. Felicemente stupito ogni volta che si ripeteva. Una sera, a una cena di amici, Portoghesi ha incontrato Silvia Ronchey che sta portando avanti una ricerca sul mito di Arianna. «La danza della gru? Ma era già praticata nell’ antica Creta», ha ricordato la studiosa. Teseo, dopo aver vinto il Minotauro, avrebbe infatti celebrato l’ evento, insieme alla schiera dei giovani scampati con lui alla morte, con una danza apposita chiamata «geranos», e «geranoulkòs», ossia «colui che tira le gru», era chiamato il corego. L’ immagine della gru era incisa anche sugli scudi di Teseo e dei compagni. Per l’ architetto, che nei suoi progetti si ispira alla poesia e alla musica, la notizia che la sua danza con la gru risalga addirittura all’ alba della civiltà, non è così stupefacente. La assorbe come una delle infinite suggestioni sulle quali ha edificato la propria teoria dell’ architettura e lo stupefacente complesso che ha trasformato in abitazione. «Sono cresciute di pari passo», conferma. Da una parte la Geoarchitettura, materia che insegna da tre anni all’ università La Sapienza di Roma, dopo una vita passata a istruire gli studenti prima sulla Storia dell’ architettura e poi sulla Composizione. Dall’ altra la casa a Calcata, un piccolo borgo medievale semiabbandonato alle porte di Roma, dove i Portoghesi si sono trasferiti definitivamente da una ventina di anni, realizzando gioiosamente quello che il filosofo Heidegger definisce i tratti essenziali dell’ abitare. «L’ abitare ci appare in tutta la sua ampiezza quando pensiamo che nell’ abitare risiede l’ essere dell’ uomo, inteso come il soggiorno dei mortali sulla terra». Heidegger identifica l’ abitare con l’ essere. «Se è vero questo - riflette Portoghesi - la responsabilità dell’ architettura è infinitamente maggiore. Il sottotitolo di Geoarchitettura è infatti architettura della responsabilità». Sull’ argomento pubblica una rivista trimestrale, «Abitare la Terra», e ha scritto un libro edito da Skira, in cui riprende il concetto di Geoarchitettura elaborato da Le Corbusier, ma con un significato diverso. «Le Corbusier - spiega - aveva individuato tre modi di insediarsi: città, campagna e aggregato di piccoli centri. Con la globalizzazione la Geoarchitettura è diventata architettura della Terra. L’ architetto deve lavorare pensando alle conseguenze di quello che fa, non solo nel proprio paese, ma in tutto il resto del pianeta». Elenca i requisiti della nuova disciplina: imparare dalla natura, difendere la natura dal conflitto società-tecnologia, perseguire l’ obiettivo con una coscienza collettiva corale. « ora di abbandonare il proprio individualismo sfrenato e di costruire anzitutto città vivibili. Oggi invece l’ architettura costruisce dei monumenti che esprimono un valore artistico, ma non qualcosa di condiviso. Infine l’ innovazione: non ci si può accontentare di riprendere qualcosa che è già stato. Imitando Frank Gehry, non solo non si fa quello che ha fatto Gehry, che è nuovo, ma si diventa ripetitori senz’ anima. Per fortuna i giovani sono abbastanza stufi di questa fiera delle vanità». I suoi studenti - un centinaio ogni anno - l’ ultimo giorno di lezione, a metà giugno, li porta a Calcata, «perché imparino dalla natura, la maestra dei maestri». I ragazzi si siedono sotto gli ulivi centenari, in quello che lui chiama il tempio degli dèi fuggiti, riprendendo la suggestione di una delle più note poesie di Hölderlin. «Gli alberi sono colonne che sostengono la volta del cielo - dice il professore - i muretti di tufo alti pochi centimetri che definiscono le tre rotondità sul prato sono una non architettura, ma piuttosto una traccia archeologica. un’ architettura suggerita, non costruita, che non si sovrappone al paesaggio, ma si limita a interpretarlo». Gli ulivi hanno un nome: Michelangelo ha il tronco plasticamente contorto, dà l’ idea del «Prigione», dell’ immagine che si nasconde dietro la materia. Borromini si attorciglia come la lanterna spiraliforme della basilica di Sant’ Ivo alla Sapienza. Seguendo il cerchio si incontrano ancora Bernini e Rodin, Moore e Brancusi. Sotto gli ulivi, nell’ erba del prato, spiccano grandi uova bianche, come in una installazione surreale. Li ha deposti la coppia di nandù, specie di struzzi che emettono un verso basso e profondo, simile al suono del corno tibetano, ma più grave e concentrato, che sembra arrivare dalle viscere della terra. La passeggiata nel parco non finisce mai. Ad ogni angolo, tra i cespugli, gli alberi, le essenze fiorite, sono sparpagliati piccoli leggii che recano brani di poesie: inni alla rosa, l’ Ode all’ Usignolo di Keats, I fiori di Rimbaud, Il cigno di David Herbert Lawrence, l’ Iris di Arno Holz e un brano di William Morris: «Conosco un piccolo giardino pieno di gigli e rose rosse dove se potessi vagherei dall’ alba rugiadosa all’ umida notte, con qualcuno che insieme a me vagasse». L’ ispirazione fondamentale, dice Portoghesi, è quella del luogo dei ricordi. Appassionati di barocco e liberty, di miti greci e pittura rinascimentale, Paolo e Giovanna hanno creato un teatro all’ aperto che rievoca il celebre scalone disegnato da Michelangelo per la biblioteca Laurenziana di Firenze. Una piscina rimanda al teatro marittimo di Villa Adriana a Tivoli, un angolo riecheggia il giardino all’ italiana di gusto toscano, un altro le follie ideate da Pirro Ligorio a Bomarzo per il principe Orsini. Quando i Portoghesi hanno lasciato Roma e hanno dovuto traslocare qui i loro quarantamila volumi, il giardino è diventato anche il luogo dei libri, che sono suddivisi in dieci biblioteche, ricavate all’ interno delle vecchie casette di Calcata. Da fuori sono rimaste identiche alle altre del paese, all’ interno si respira l’ atmosfera che alita all’ interno di certi templi: grande pace e felicità, corroborate da preziosi tappeti persiani, profumi d’ incenso, silenzio profondo e naturalmente libri, dal pavimento al soffitto. «Sono riuscito a realizzare il sogno di Cicerone: se hai una biblioteca che apre su un giardino, non ti manca nulla». Alla fine del giardino comincia la grande festa degli animali, che prosperano intorno a un lago artificiale. Non solo uccelli, ma anche caprette, una comunità di lama e, sulla collina di fronte, gli asini amiatini, che i Portoghesi hanno salvato dall’ estinzione una trentina di anni fa, e i maiali di cinta senese, che qui si sono incrociati con i cinghiali. Cominciarono trent’ anni fa adottando un asino che il contadino stava portando al macello. Poi hanno preso a frequentare le fiere di paese, a scambiare esemplari con altri appassionati. L’ architetto si allontana da questa specie di eden soltanto per seguire i suoi lavori: in questo momento un centro turistico in mezzo alle dune a sud di Buenos Aires e la moschea di Strasburgo, sul canale che unisce il Reno al Rodano. Ma la sua opera più completa è questa: «un concerto di armonie espresso non in una successione di tempi, ma in una successione di spazi», come preconizzava il suo amato Schelling.
Lauretta Colonnelli