Marisa Fumagalli, Corriere della Sera 18/07/2010, 18 luglio 2010
CIACOLE E BRISCOLA SEPARATE: BENVENUTI AL BAGNO SESSISTA
Tre metri (in altezza) di democratica separazione: di qua, lo spazio per donne e bambini (i maschi sono ammessi solo fino ai 12 anni), di là quello, meno ampio, riservato agli uomini. Il muro dello storico Bagno di Trieste, mai crollato a dispetto di tutte le rivoluzioni di usi e costumi, è rigorosamente bianco. Taglia in due la lingua di spiaggia e corre lungo un tratto di mare. Benvenuti alla Lanterna, unico esempio in Europa di stabilimento balneare sessista. Ma senza scandali contemporanei, senza censure, neppure nel segno paritario del femminismo di ieri e di oggi. Ai triestini, conservatori e progressisti, va bene così. La conferma popolare fu sancita perfino da un referendum indetto, qualche tempo fa, dal quotidiano «Il Piccolo». Tanto che stupisce una delle rare voci fuori dal coro, quella dell’ astrofisica Margherita Hack. «Io sono solita frequentare una spiaggia mista - premette -. Al Bagno Lanterna non sono mai stata. Come minimo, trovo buffa l’ idea di isolare, al sole e in acqua, le donne e gli uomini. Per natura, sono contraria ad ogni tipo di discriminazione». Tant’ è. Lo stabilimento balneare, inaugurato durante l’ impero asburgico (data ufficiale d’ apertura il 1903, ma qualche fonte la retrocede di una decina d’ anni), fu progettato, in tempi di forte prudérie, per prevenire gli «atti contrari alla decenza» (puniti con pene severe) e per salvaguardare la privacy di fanciulle in fiore e di dame attempate. Vien da sorridere, adesso, che il comune senso del pudore si sposta sempre più avanti fino a diventare evanescente. Ma il concetto d’ antan va capovolto: la separazione in spiaggia, a Trieste, è sinonimo di libertà. Tra ciacole (versione triestina del gossip), da una parte, e partite a briscola e tressette, dall’ altra, donne e uomini si ritrovano fra loro, immuni dal sottile tarlo del confronto. «Nato per dividere, il Bagno con il muro si è rivelato, poi, una conquista», conferma lo scrittore Pino Roveredo. Che andava alla Lanterna da ragazzino, assieme al fratello gemello e al padre. «A bracciate, seguivo il divisorio, allora fatto di travi, piantate nel mare, mentre - ricorda - cercavo di intercettare la sagoma di mia madre, oltre quel limite. Ne approfittavo anche per sbirciare le ragazze». «Ho sempre immaginato il mare come un luogo anarchico - riflette Roveredo - dove s’ immergono le caviglie del disoccupato e le chiappe del conte». Popolani, nobili, borghesi. All’ epoca di Francesco Giuseppe, calavano alla Lanterna anche i militari. E qui si «spidocchiavano». Tra le varie ipotesi sull’ origine del soprannome dato allo stabilimento balneare - il «Pedocin» (cioè il pidocchietto), nella parlata dei triestini - questa è la più raccontata, dai vecchi dipendenti dello stabilimento: «Una volta, dalle due alle quattro del pomeriggio, tutti dovevano lasciare la spiaggia perché arrivavano i militari con i muli e i cavalli a lavarsi. Le bestie venivano legate negli spogliatoi e i soldati... si spidocchiavano». La più credibile forse è un’ altra: pedoci, in dialetto, significa anche cozze e, nell’ Ottocento, nello specchio di mare antistante La Lanterna, si coltivavano i mitili nelle cosiddette Pedocere. Roveredo sembra dare più credito alla storiella militare. «Tra l’ altro, l’ abitudine di lavarsi al bagno pubblico non è così remota - spiega lo scrittore, cinquantaseienne -. I soldati di Francesco Giuseppe lo facevano in mare; quindi, la modernità ci ha portato le docce. Nella mia esperienza di figlio di gente povera, le abluzioni personali prevedevano certi riti. A casa, durante la settimana, mi lavavo usando il catino. La domenica, finalmente, c’ era la doccia del Pedocin. Fantastica». La connotazione popolare del Bagno Lanterna, che sorge lungo il molo Santa Teresa (oggi fratelli Bandiera), nei pressi del faro ottocentesco, è documentata dagli archivi storici. La giornalista Diana Cuderi, autrice di una tesina sull’ argomento, racconta: «La città era sotto il dominio austriaco, quando, a fine Ottocento, il Comune ritenne utile risistemare l’ area dei bagni pubblici trasformandola in vero e proprio stabilimento balneare. L’ ingresso era gratuito e offriva a tutti la possibilità di andare al mare senza allontanarsi dal centro». Il Pedocin, infatti, non è distante da piazza Unità, il cuore del capoluogo. «L’ ingresso a pagamento viene introdotto nel 1938 - continua Cuderi - e i prezzi, pur variando nel corso degli anni, sono sempre stati molto bassi». Di più: estate e inverno, salvo motivi di forza maggiore, il Bagno resta sempre aperto. C’ è un episodio illuminante, al riguardo. Risale al 1944, in piena occupazione nazista, quando lo stabilimento venne usato come deposito per il materiale di scavo di un rifugio antiaereo. Causa imprevista. Ma il Comune si affrettò a scrivere alla ditta che eseguiva i lavori, invitandola a liberare lo spazio entro giugno. Testuale, dalla lettera: «I bagni estivi non possono considerarsi un divertimento e uno sport; sono un ottimo mezzo di profilassi igienica, specie per le classi meno abbienti». Insomma, il Pedocin è una pietra miliare. Struttura antica, nel tempo, viene più volte restaurata. Anche il regolamento interno cambia (nel 1950, concede ai maschi di indossare solo le mutande e alle bagnanti un costume o una vestaglia lunga); resta immutata, tuttavia, l’ essenza: il muro di separazione. Che, a onor del vero, sembrava vacillare nel 1943, sotto i colpi mediatici del quotidiano locale, protagonista della città. «Il Piccolo», infatti, propose di abbattere la palizzata per consentire alle famiglie meno agiate di andare, unite, in spiaggia e al mare. E lanciò una campagna contro «i bagni che dividono i cittadini in caste: quelli che possono pagare 80/100 lire per recarsi al Savoia e a Grignano; e la povera gente». Non sortì alcun effetto. Anche in epoca recente, circola qualche proposta, decisamente minoritaria, che mira a trasformare la Lanterna in un bagno promiscuo. Tanto più che - si fa notare - pochi chilometri più in là si annida la prima spiaggia italiana di nudisti. Ma - sostiene la maggioranza dei triestini - non c’ è contraddizione tra le due tendenze. Al punto che lo stabilimento balneare sessista, dopo aver resistito al passaggio di Trieste dall’ Austria all’ Italia, ai nove anni di governo militare alleato e al ricongiungimento della città al Paese, oggi appare un segno di distinzione. Quasi un fiore all’ occhiello da esibire. Le statistiche dicono che le donne sono le più assidue frequentatrici del Pedocin: casalinghe, mamme e nonne con bambini, commesse e impiegate in pausa pranzo, giovani e anziane. l’ anima matriarcale di Trieste, tipica delle città marinare. Qui, prima che altrove, le donne hanno conquistato il diritto di andare al mare. La separazione dall’ altro sesso non è vissuta come segregante. Anzi. Le signore espongono con disinvoltura i corpi segnati dall’ età. I chili di troppo non sono un’ ossessione. E neppure qualche rotolino di cellulite. In tanta naturalità diffusa, forse l’ imbarazzo tocca più le «siliconate», alla continua ricerca di conferme. Il mix femminile del Bagno, oggi, si arricchisce di nuovi arrivi. Dalle donne dell’ Est che abitano in città, alle musulmane osservanti, con i loro figli. Tutte in un’ unica corrente. Ma un’ eccezione alla regola c’ è: la festa di fine estate. Il muro, certo, non si abbatte. Si trova, però, uno spazio comune dove donne e uomini ballano fino a tardi.
Marisa Fumagalli