SANDRO CAPPELLETTO, La Stampa 18/7/2010, 18 luglio 2010
COSI’ HANNO DATO VALORE AI GIOVANI
Quando sono nato io, loro erano già storia. Oggi, continuano ad esserlo. Capita a pochi, a pochissimi». Daniel Harding, direttore d’orchestra, è nato a Manchester nel 1975: i quattro di Liverpool si erano sciolti cinque anni prima. Harding ha 17 anni quando forma il suo primo «gruppo». Venti quando viene chiamato come assistente da due direttori di primissimo rango, Samuel Rattle prima, poi Claudio Abbado: una gavetta eccezionale e breve, prima di imparare prestissimo a volare da solo. Oggi, è responsabile di due orchestre, a Londra e Stoccolma.
Maestro, lei e i Beatles avete un tratto comune: il successo già da ragazzi. Può spiegare un’esperienza simile?
«Quando succede, al di là dei meriti delle singole persone, significa che la società è pronta. I ragazzi inglesi degli Anni 60 avevano bisogno di trovare un’identità nuova, qualcosa che appartenesse prima di tutto a loro, che li rappresentasse. Quando ho cominciato la mia carriera di direttore d’orchestra, il mondo della musica classica era pronto ad accogliere con meno sospetto un ragazzo salire sul podio e dirigere Mozart e Beethoven. I Beatles mi hanno certamente aiutato, perché hanno cambiato, almeno nel mio paese, il modo in cui la società guardava chi aveva vent’anni».
Come giudica la loro musica?
«I Beatles sono stati un complesso inglese. Se pensiamo alla musica colta, vediamo che i massimi compositori inglesi del 900, penso a Britten, oggi a Maxwell-Davies, non hanno mai fatto parte delle avanguardie più radicali. L’Inghilterra non ha avuto compositori come Schoenberg, Webern, Boulez, Stockhausen. Anche il pop inglese è stato meno ”hard” di altre esperienze. La musica dei Beatles è più gentile che aggressiva, le parole delle loro canzoni si cantano bene. Piacevano ai ragazzi, ma era difficile trovare, anche tra gli adulti, qualcuno che rifiutasse la loro musica. E poi sono stati veramente un quartetto».
Li paragona a quello che nel mondo della classica è un quartetto d’archi?
«Ognuno di loro aveva una forte individualità musicale, però quando suonavano assieme, riuscivano a fondersi: nessuno schiacciava nessuno. Fare musica assieme richiede delle affinità più forti delle differenze tra i singoli. Un equilibrio difficile da raggiungere e, più ancora, da mantenere. Per una band rock, o un ensemble classico che riesce a crescere assieme, ce ne sono dieci che nascono e subito dopo si separano. Nemmeno il successo ti può mettere al riparo, anzi spesso dilata i problemi. Quando un direttore sale sul podio è solo davanti a un’orchestra, che è sempre più forte di lui. In quattro le difficoltà sono altre, ma non mancano. E poi loro avevano curiosità diverse».
Il più curioso era Paul McCartney: quando Luciano Berio tenne delle conferenze sulla «nuova musica» a Londra, lui andò ad ascoltarlo.
«Probabilmente cercava nuove strade, la forma della canzone non gli bastava più. Pochi anni dopo, McCartney scriverà il Liverpool oratorio: un’orchestra, un coro, dei cantanti, come con i Beatles non era mai successo. In Because, una delle loro ultime canzoni, usarono il moog, un sintetizzatore di suoni: anche questa una novità».
passato mezzo secolo dalla loro prima canzone: i Beatles appartengono ormai alla classicità. Ci resteranno per sempre?
«Oggi non riusciamo a immaginare un mondo senza Vivaldi e Bach, eppure per moltissimo tempo dopo la loro morte, sono rimasti totalmente sconosciuti. impossibile dire se fra un secolo si ascolteranno ancora Michelle o Yesterday. Però, come nella musica classica esiste un prima e un dopo Beethoven, certamente esiste, nel pop, un’epoca prima e dopo i Beatles».