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 2010  luglio 19 Lunedì calendario

CARAVAGGIO, NATA UNA ROCKSTAR

Bisognerebbe sentire il suo agente, per capire se ha una data libera per il Fe­stival di Reading. O magari per un de­ejay set a Ibiza. Nella «Notte bianca» che Roma gli ha dedicato, Caravaggio ha messo insieme 25.000 persone, dissemi­na­te tra le chiese della capitale e la Galle­ria Borghese.
Tutte lì a vedere i suoi capo­lavori. E che un pittore morto da quattrocento anni fac­cia i numeri di un big della console o di una rock star è una novità assoluta. A confer­mare l’impazzimento colletti­vo per Michelangelo Merisi c’è il boom del botteghino di Palazzo Pitti per la mostra «Caravaggio e caravagge­schi », che si va a sommare ai 600mila visitatori della rasse­gna delle Scuderie del Quiri­nale, un pellegrinaggio di massa che sarebbe entrato a perfezione nelle pagine di Fratelli d’Italia , come la miti­ca mostra mantovana di Man­tegna che fece girare i tacchi a un Alberto Arbasino inorridi­to da quell’epocale carnaio. E intanto, manco si trattasse di Jim Morrison, una fiumana di fan adoranti rende omag­gio a Porto Ercole alle presun­te spoglie del pittore, le pri­me «ossa sue al 85%» di cui si abbia memoria, tecnoreli­quie attorno alle quali ci si è affannati come in una punta­ta di CSI . Letizia Moratti, da parte sua, dopo aver tentato di dirottare le spoglie del pit­tore verso il famedio di Mila­no, propone di intitolare a Ca­ravaggio l’aeroporto della Malpensa.
In attesa che le reliquie met­tano a segno, da qui a fine ago­sto, quel miracolo che baste­rebbe ad aprire il processo di beatificazione - può bastare un bagnante dell’Argentario scampato da un attacco di me­dusa, naturalmente invocan­do il dipinto omonimo - a Ca­ravaggio non si è risparmiata neanche la cerimonia di «reinvestitura» a Cavaliere di Malta, consumata in una fat­toria maremanna, presumia­mo con tanto di torneo dei butteri e grigliata finale, men­tre, dall’altra parte, c’è chi so­stiene che a ucciderlo, in una sorta di complotto di stato de­gno di una puntata della Not­te della Repubblica , siano sta­ti gli stessi Gerosolomitani, con l’aiuto dei Colonna, di Scipione Borghese, il tacito assenso di servizi segreti de­viati e l’appoggio logistico della Cia. E nuovi Caravaggio spuntano ogni mattina, persi­no dalle pagine dell’ Osserva­tore romano , e in un giro d’orologio tutti gli esperti di­cono la loro in merito, anche se nessuno ha visto il dipinto - l’ennesima crosta derivati­va - dal vivo.
Moriremo tutti caravaggi­sti?
Nel dubbio, è il caso di chiedersi se davvero basta la biografia da sbandato, la ses­sualità incerta e l’allure dark dei dipinti a farne una rock­star. O se forse il fascino che esercita la sua figura non sia un altro sintomo dello sban­damento culturale dei nostri tempi. Se si aprono gruppi in suo nome su Facebook, se si moltiplicano le pubblicazio­ni e le opere audiovisive che lo riguardano, è probabil­mente perché Caravaggio possiede quel minimo co­mun denominatore di geniali­tà che è in grado di mettere d’accordo tutti. Gli unici a sot­trarsi sono proprio gli storici dell’arte, che ricordano co­me pittori quali Velázquez o Rubens siano persino più grandi del Merisi, senza sco­modare i big del Rinascimen­to. Ma non c’è niente da fare: Leonardo e Michelangelo so­no dinosauri, Raffaello era già cotto dopo cent’anni, al­lorché proprio Velázquez po­teva affermare di detestarlo. Caravaggio no, lui è un «fore­ver young», come Rimbaud e Cobain, come James Dean e Francesca Woodman. Pazien­za se amava dipingere perso­ne anziane, se nella sua tavo­lozza degli ultimi anni c’è ben poco della sensualità del­la giovinezza, e domina inve­ce un’atmosfera da camera mortuaria.
La verità è che Caravaggio piace perché riesce a elimina­re dalla fruizione della pittu­ra quel filtro intellettuale che si frappone tra l’opera e chi la osserva. Finalmente guardia­mo uno che parla come noi, che non nasconde il significa­to dei suoi quadri dietro sim­bologie che non conosciamo, che non ci fa sentire come a scuola. Caravaggio è la morte delle audioguide, delle tavo­le sinottiche, delle opere stu­diate a casa sui bigini per non fare cattiva figura con gli ami­ci una volta in mostra. Non fa distinzioni di censo o di titolo scolastico.
La pittura ha fondamental­mente a che fare con due in­tenzioni di massima: la rap­presentazione dell’identità, in cui giganteggiano Tiziano, ancora una volta Velázquez, Bacon, e che ha a che fare con la posizione dell’uomo nel mondo e con la coscienza di sé. E, dall’altra parte, la rap­presentazione della realtà, che è appunto il tentativo di togliere tutte le sovrastruttu­re che si frappongono tra lo sguardo dell’artista e la sua pennellata. Su questo fronte, Giotto, Masaccio e Caravag­gio sono insuperati, e rappre­sentano il punto più alto di una maniera di sentire le co­se che è radicalmente italia­na, come dimostrano anche il verismo e il neorealismo: la nostra cultura da sempre tan­to è più grande quanto più è anti- intellettuale.
Per un popolo che ha con la moralità un rapporto compli­cato, l’unica idea di etica pos­sibile è un’etica dello sguar­do. E anche la nostra favola nazionale ha curiosamente a che fare con il problema laico di raccontare la verità, non col fare il bene o il male. Cara­vaggio ci piace dunque quan­to Vasco Rossi (o Valentino Rossi, o San Francesco, o Ri­no Gattuso) perché, non di­cendo quelle bugie che sono quasi consustanziali al lin­guaggio artificioso dell’arte antica, è un pittore in carne e ossa (no, non quelle ossa... ), mica di legno. O almeno così ci piace credere.