LUCIO CARACCIOLO, la Repubblica 19/7/2010, 19 luglio 2010
PERCHE’ TORNANO LE SPIE /1 - A
che servono i servizi? Perché ogni Stato - e non solo - ha le sue spie? Forse che la guerra fredda non è finita? Domande che hanno fatto il giro del mondo dopo che nelle scorse settimane si è consumato il più spettacolare scambio di spie della storia. Neanche a dirlo, fra russi e americani. Ecco allora rispolverare Le Carré o rievocare il mitico ponte di Glienicke, la passerella fra Berlino Ovest e Potsdam adibita fino agli anni Ottanta da Kgb e Cia al baratto delle "talpe" d’alto bordo. Vecchie immagini ingiallite, roba da archivio. E invece...
Per il vero, i primi a dubitare del loro futuro, quando il Muro cadde in pezzi, furono proprio gli agenti delle intelligence di mezzo mondo. Uomini e donne dei "servizi speciali". I cari nemici dell’Est e dell’Ovest si legittimavano gli uni con gli altri. Dopo il suicidio dell’Urss, gli agenti segreti americani ed europei, tanto quanto i russi, temevano che i politici li avrebbero messi in naftalina.
Anche per effetto d e l l e o p i n i o n i pubbliche, orientate a credere che la storia fosse finita, che non ci fossero più Stati che ne minacciassero altri: dunque a che pro pagare servizi che non servivano più? Di quella grande ondata di paura è testimone il verbale dell’incontro riservato svoltosi il 9 settembre nella sede romana del Sismi, dove l’allora direttore del nostro controspionaggio, ammiraglio Gianfranco Battelli, volle radunare un inedito consesso (il testo è in Limes 3/1997, pp. 279-297). In codice: Operazione Brancaccio. Di fatto, una tavola non troppo rotonda fra capi dei servizi segreti italiano, americano, russo, tedesco, francese e spagnolo. Alcuni attivi, altri asseritamente in pensione. Tutti ansiosi di dimostrare che la loro onorata corporazione non meritasse la pensione. Curiose retrouvailles fra colleghi nemici e alleati (anche se fra alleati ci si è sempre spiati come e più che fra nemici).
L’atmosfera è ben colta dalle parole dell’ultimo capo del Kgb, generale Leonid Shebarshin, che la sera prima aveva ripetutamente levato il calice alla salute degli ex nemici occidentali. «Vorrei mettere in guardia contro l’errore di considerare i servizi segreti come un prodotto della guerra fredda. (...) I servizi segreti sono sempre esistiti, in pace come in guerra, giacché il loro scopo è proprio quello di prevedere l’insorgere di conflitti e attrezzare lo Stato di appartenenza con le informazioni utili a prevenirli o ad affrontarli. Per questo ritenere, come alcuni paesi occidentali, che grazie alla scomparsa del Nemico - l’Unione Sovietica - i servizi non siano più necessari, è un grave errore».
Intorno al tavolo, gli ex (?) nemici annuivano convinti.
Specie quando il generale concluse: «Siamo tutti buoni amici eppure tentiamo ogni volta di carpire i segreti altrui infrangendo le leggi, naturalmente. (...) Persino nelle famiglie più felici c’è talvolta bisogno di un po’ di spionaggio».
Entusiasmo generale.
Dopo l’11 settembre, la perorazione del generale Shebarshin sarebbe stata superflua. La guerra al terrorismo ha rilegittimato l’intelligence. E soprattutto l’importanza del fattore umano in un mestiere che non può essere affidato solo a macchinari super sofisticati.
Scovare e possibilmente infiltrare le cellule del terrore, intercettarne e decrittarne le comunicazioni, è attività di intelligence gradita, anzi sollecitata dalle opinioni pubbliche occidentali, e non solo. Meno note, ma almeno altrettanto strategiche, le operazioni di spionaggio economico e tecnologico.
Condotte dagli Stati o dalle grandi aziende multinazionali, piuttosto che dalle organizzazioni criminali - quando i tre fattori non sono intrecciati. Per tacere dello spionaggio in proprio di questo o quell’agente infedele, o di intere branche separate, come ammonisce la recente storia italiana.
In nome degli interessi supremi dei rispettivi Stati, le agenzie di intelligence agiscono come attori di un mercato dell’informazione segreta.
Ogni servizio cerca di dotarsi del suo patrimonio di notizie e analisi, da scambiare sulla piazza informale dell’intelligence. La concorrenza più spietata spesso non è con agenzie estere, ma fra le corporazioni interne allo stesso sistema nazionale, con effetti devastanti sulla sicurezza dello Stato che si dovrebbe proteggere.
Ne sanno qualcosa gli americani, che tuttora soffrono sul fronte bellico più caldo - l’Afghanistan - gli effetti della guerra fredda fra le agenzie teoricamente soggette alla medesima amministrazione. Come ci ricorda il caso McChrystal.
Quanto al megascambio russo-americano, con il presunto ritorno della guerra fredda (ammesso sia mai del tutto finita) non ha nulla a che vedere.
Non colpisce che "talpe" e "talent scout" russi continuino a cercare notizie e reclutare informatori in America, o viceversa.
L’evento non sta nella retata di spie russe - la pesca più ricca nella storia dell’Fbi - ma nello scambio rapidamente concordato fra Mosca e Washington. Il reset fortemente voluto da Obama e Medvedev (forse anche da Putin) comincia a dare i suoi frutti. La Casa Bianca cerca disperatamente di mettere ordine nel labirinto delle sue troppe strutture di intelligence. Quanto al regime russo, si appresta a varare il rafforzamento dell’Fsb, erede del Kgb, in nome della sicurezza dello Stato.
In questo mondo fuori controllo americani e russi hanno bisogno gli uni degli altri, molto più di quando ne controllavano ciascuno la sua metà. No, le spie non rischiano la disoccupazione.