Vito Punzi, Libero 18/7/2010, 18 luglio 2010
PROCESSO DI CARTA PER KAFKA
La disputa attorno ai diritti sul lascito dei manoscritti di Franz Kafka e del suo amico Max Brod sta vivendo in questi giorni a Tel Aviv e a Zurigo un nuovo round. Nei giorni scorsi una delegazione di avvocati, guidata da Itta Shedletzky, stimata studiosa degli scritti kafkiani, forte di un mandato giudiziario, ha fatto visita alle filiali delle banche Leumi e Discount della città israeliana per prendere visione del lascito di Brod che da quarant’anni si conserva in due distinte casseforti. Non sono trapelate ancora notizie sul contenuto di quel fondo, in quanto Hava Hoffe, una delle figlie di Esther Hoffe, la segretaria di Brod cui venne affidato il lascito, è riuscita ad ottenere un silenzio stampa imposto. Contro di esso s’è scagliato il quotidiano ”Haaretz”, che in Israele sta seguendo la vicenda con particolare zelo, in quanto rappresentante di interessi non solo giornalistici. Il giornale appartiene infatti ad Amos Schocken, il nipote dell’editore di Kafka, Salman Schocken, che nel 1956 portò l’archivio Kafka in Svizzera.
A Zurigo invece, sempre su disposizione della corte suprema di giustizia di Israele, è attesa per domani l’apertura delle quattro cassette di sicurezza che si trovano presso la Ubs, all’interno delle quali si presume si trovino manoscritti e disegni di Kafka. Anche in questo caso a guidare la delegazione sarà Itta Shedletzky, che avrà anche il compito di redigere un inventario di quanto lì contenuto. La studiosa si è impegnata di fronte allo stato d’Israele a non divulgare notizie sul contenuto del fondo.
I protagonisti del caso
Il retroscena della decisione di aprire le casseforti e le cassette di sicurezza, preceduta da due inutili ricorsi presentati da Hava Hoffe, è rappresentato dalla causa ereditaria tra le figlie e la Biblioteca Nazionale israeliana. Quest’ultima sta tentando da circa un anno di impedire il rilascio di un certificato di successione per le due sorelle Hoffe e di entrare infine in possesso di quei manoscritti kafkiani che un tempo erano appartenuti a Brod e che ora le Hoffe venderebbero volentieri all’Archivio Letterario Tedesco di Marbach, dando seguito così a ciò che avvenne nel 1988. Allora i tedeschi acquistarono dall’ex segretaria l’autografo kafkiano de ”Il processo” per circa 2 milioni di dollari, un prezzo mai pagato prima per un manoscritto. Rispetto alle vicende di questi giorni, in Germania si preferisce stare alla finestra. Lo stesso Ulrich Raulff, il direttore dell’Archivio di Marbach, in una recente visita in Israele ha ribadito di non voler prendere partito nella disputa. «Mi aspetterei solo di trovare lettere di Kafka a Brod», disse due anni fa Ulrich von Bülow, responsabile della sezione manoscritti dell’Archivio tedesco, «lettere la cui esistenza peraltro era già nota e che in parte sono già state pubblicate, nonché alcuni suoi disegni. Non capisco tutto questo clamore». La vicenda potrebbe avere in realtà altre motivazioni. La provocazione l’ha lanciata il traduttore dell’opera di Kafka in ebraico, Shimon Sandbank, il quale ha ricordato un dato indiscutibile: Kafka scrisse in tedesco e mai pensò di trasferirsi in Israele.
Protagonista principale della contesa da parte israeliana è Meir Heller, avvocato della Biblioteca Nazionale. La sua tesi è che a proposito degli autografi di Kafka si tratti di patrimonio nazionale e che dunque debbano essere di proprietà di Israele. Secondo Heller nel testamento di Brod ci sarebbe un passo secondo il quale i manoscritti e lettere dovevano essere affidati alla biblioteca dell’Università Ebraica di Gerusalemme, alla Biblioteca Comunale di Tel Aviv o a un altro archivio pubblico e le eredi di Brod non avrebbero rispettato questa volontà. Lo stesso Heller ha dichiarato a ”Die Zeit” che dall’esame delle procedure per i diritti di successione sono emersi «chiari indizi» per cui risulterebbe che per i preziosi autografi di Kafka non si sia trattato di alcun regalo, e piuttosto negli anni ”70 siano state effettuate «gravi valutazioni errate». Il legale si riferisce in particolare alla lettera di Brod dell’aprile 1952, indirizzata a Esther Hoffe, nella quale di parla della ”donazione”. Effettivamente Brod ha scritto lì in forma un po’ maldestra, a proposito del suo «intero lascito letterario», «al quale naturalmente si aggiungono le lettere e gli autografi di Kafka di mia proprietà». Già nella seguente frase però lo stesso chiarisce: «dei quali la gran parte ti ho già donato in vita». E questo è ciò che la corte marziale riconobbe già 26 anni fa. Il motivo per cui quel riconoscimento oggi non abbia più consistenza Heller non lo ha mai spiegato ed è davvero come se ci si trovasse immersi in una storia kafkiana.
Documenti rubati
Esperti non di parte, l’archivista di Stato israeliano Paul Alsberg e il tribunale distrettuale di Tel Aviv, già nel 1974 avevano riconosciuto che gli autografi non erano mai stati parte di un lascito e piuttosto, al più tardi dal 1945, risultavano essere proprietà privata. Max Brod, come dimostrano i documenti, quand’era ancora in vita li aveva regalati a Esther Hoffe e questa a sua volta alle figlie. Dopo la campagna messa in atto principalmente da ”Haaretz”, in un arco ristretto di tempo per due volte è stata fatta irruzione nell’appartamento della settantaseienne e da lì sono stati rubati documenti. Sebbene in una delle due irruzioni uno dei ladri abbia perduto un cellulare, da quello, stranamente, non si è riusciti a risalire al colpevole.