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 2010  luglio 18 Domenica calendario

TOM JONES - LONDRA

un colpo d´anca, e le ragazze impazziscono. Lui ha settant´anni, loro venti, venticinque, trenta al massimo. Sono tutte in estasi mentre Mr. Sex Bomb canta nella chiesa sconsacrata trasformata in un club trendy di Mayfair le canzoni religiose del suo ultimo cd, Praise & Blame. Poco importa se questa volta Tom Jones non ammicca ma intona con la solennità del vecchio Johnny Cash gli inni sacri della sua infanzia, se le vetrate raccontano parabole dagli atti degli apostoli, se il palcoscenico è sistemato in quello che una volta era un altare dedicato a San Marco, le inglesine continuano a scambiarsi battute salaci sulle proverbiali capacità amatorie dell´artista. «Ora che non si tinge più i capelli e si è messo a dieta è proprio una bomba», esclama una biondina mentre col cellulare scatta una foto dietro l´altra. «Quello ne ha sciupate di femmine...», dice un´altra, e sogghigna elencando i flirt che sono finiti sulle pagine di gossip: Mary Wilson delle Supremes, miss mondo Marjorie Wallace e Cassandra Peterson (conosciuta come Elvira, Mistress of the Dark, diavolessa tentatrice dei sonni di Elvis), che spiattellò ai giornali di aver perso la verginità dopo un frettoloso rapporto sessuale con l´ex minatore superdotato che la fece finire al pronto soccorso.
«Leggende», minimizza Tom Jones seduto in una suite del Charlotte Street Hotel, elegante e discreto rifugio londinese di un artista che ormai da più di trent´anni si è adattato agli agi di Hollywood. «In realtà, a modo mio, sono sempre rimasto fedele alla famiglia. Le presento mio figlio Mark», conclude per cercare di porre un freno alla valanga di «leggende». Non sta bene parlare delle scappatelle coniugali davanti al proprio figlio, ma Mark Woodward (Tom Jones nasce Thomas John Woodward, il nome d´arte fu scippato dal romanzo di Henry Fielding), che dal 1986 è il suo manager, in realtà sembra ben più attempato di papà. Il vecchio leone, al contrario, è in perfetta forma, completo di lino grigio perla, il viso di un quarantenne («qualche ritocco qua e là, niente d´importante»), la vitalità di un ragazzo, la voce immacolata. Tra padre e figlio ci sono diciassette anni scarsi di differenza, Tom ne aveva solo sedici quando la sua compagna di scuola Linda Trenchard restò incinta. La sposò in fretta e furia nel 1957 e da allora non si sono più separati. «Mia moglie non ha mai amato tutto quello che circonda le celebrità», confida Jones, «con gli anni è anche diventata agorafobica, stare in mezzo alla gente la fa star male». Deve essere una sorta di reazione a quel che leggeva sulle riviste negli anni Sessanta, quando il focoso gallese si vantava di far l´amore con duecentocinquanta groupie all´anno e di avere sempre una suite per l´occorrenza durante gli ingaggi a Las Vegas.
«Leggende», minimizza Jones, «leggende. A Las Vegas si lavorava sodo, due spettacoli al giorno, e il resto del tempo lo trascorrevo con Elvis a raccontare barzellette e a cantare in camerino. Elvis me lo diceva sempre, perché non fai un disco di gospel? L´ho fatto adesso, quarant´anni dopo, e ho voluto cantare Run On proprio pensando a lui, nella sua stessa tonalità. Il Re era in declino quando arrivai a Las Vegas, era incuriosito e forse un po´ irritato dalla mia energia nelle performance al Flamingo e al Caesars´ Palace. Durante un concerto all´Hollywood Bowl disse al pubblico: "Ricordate. Io ho più dischi d´oro di chiunque al mondo, compresi Tom Jones e i Beatles messi insieme". Il giorno dopo la frase era su tutti i giornali. Come dargli torto? Negli anni Sessanta la musica inglese conquistò il mondo. I Beatles cambiarono la prospettiva del pop, che fino ad allora era rimasta una cosa americana, e spalancarono le porte del mondo a tutti noi inglesi, me compreso. Dopo la loro apparizione all´Ed Sullivan Show, la pop music americana perse di colpo il suo primato e questo a Elvis proprio non andava giù. Mi stava alle calcagna. Solo decenni dopo il suo amico George Klein mi ha confidato che era geloso, che veniva nel mio camerino o nella mia suite sperando di scoprire "i segreti degli inglesi". Io ero in forma, all´epoca tiravo di boxe, mi esibivo in tutto il mondo. Lui invece ingrassava a vista d´occhio ed era prigioniero nel triangolo Memphis-Los Angeles-Las Vegas».
I biografi di Presley raccontano che il Re approfittava di ogni occasione per sbirciare il cantante gallese sotto la doccia e verificare di persona se i suoi attributi corrispondevano a quel che le groupie gli raccontavano. «Leggende», taglia di nuovo corto Jones, «leggende. Elvis era parecchio più intrigato dalla potenza della mia voce che dalla mia virilità. Avevamo lo stesso background. Anche io da piccolo andavo pazzo per il blues, il gospel e il country. Una volta a scuola intonai The Lord´s Prayer, e la maestra mi disse: "Perché canti come un negro?". Io risposi: "Non ne ho idea, questa è la mia voce"». A tredici anni aveva già il timbro ruggente di What´s New Pussycat?, «ma sarei finito in miniera se la tubercolosi non mi avesse costretto a letto per due anni. Chiuso in casa, l´unica compagnia erano la radio e le canzoni». Quando tornò a scuola, a quindici anni, aveva in testa un sogno ben preciso e una voce baritonale che aveva costruito ascoltando all´infinito Ghost Riders in the Sky di Vaughn Monroe. «Negli Usa il mio primo album fu trasmesso solo dalle radio black», racconta. «Quando partecipai all´Ed Sullivan Show i dj si misero le mani dei capelli perché non mi avevano mai visto di persona e pensavano fossi un cantante di colore. Lo stesso Otis Redding mi confidò di aver scoperto che ero bianco solo il giorno in cui c´incontrammo».
Figlio di un minatore, Tom Jones fece una lunga gavetta a Cardiff e dintorni prima di sbarcare a Londra e iniziare la sua gloriosa carriera da cento milioni di dischi venduti. Negli anni Sessanta, dopo il successo planetario di Delilah, incise anche un 45 giri in italiano, Sei responsabile/Sono più forte di te. Ricorda ancora le parole. «Che fatica imparare l´italiano, ma in un´epoca in cui si vendevano cinque milioni di singoli valeva la pena fare qualche sforzo», scherza. «Solo più tardi, dopo aver conosciuto Pavarotti, avrei scoperto le affinità che avevo col bel canto. Luciano mi disse: "Voi gallesi avete la stessa passione degli italiani per la musica. Con questo ultimo album ho riscoperto le mie radici, il gospel che cantavo nei pub, in chiesa, nei club, ai matrimoni. Il fatto di aver registrato queste canzoni nel Wiltshire, negli studi Real World di Peter Gabriel, ha aggiunto religiosità alla cosa perché, ironia della sorte, mia nonna è nata proprio lì, solo successivamente si trasferì in Galles, anche se per tutta la vita continuò a parlare con un accento che a noi sembrava straniero».
Le carriere che durano mezzo secolo hanno alti e bassi. Per Tom Jones la crisi arrivò alla fine degli anni Settanta, con il declino dell´impero del pop britannico. Abbassò la testa, affrontò la realtà e si riciclò come cantante country negli Usa, dove viveva stabilmente dal 1974 per schivare l´oneroso regime fiscale inglese. E, come Tina Turner negli anni bui dopo la separazione da Ike, si sostenne con un´incessante attività concertistica, anche in circuiti di serie B. La rinascita cominciò alla fine degli anni Ottanta: Mtv, sedotta dal videoclip di Kiss (una cover di Prince), gli spalancò le porte e Tom Jones da bollito diventò cool. Da allora al successo, potenziato dal boom dell´album di duetti Reload e dal tormentone Sex Bomb, non c´è più stato freno.
«Io vengo dalla miniera», dice, «non mi sono mai sentito usato, manipolato o strangolato dallo star system, neanche da quello americano, che è il più feroce. Sono sempre stato uno coi piedi per terra. Fare il cantante è già un privilegio, non puoi pretendere di essere il numero uno per cinquant´anni. Elvis mi diceva sempre: che droghe prendi per essere così in forma? Gli rispondevo: sono in forma perché non ne prendo, mi piace bere ogni tanto, tutto qui. E se la vodka mi rovina la voce, smetto per un mese o due. Ho sempre avuto una sorta di attitudine salutista rispetto al mio lavoro, provenivo da una famiglia proletaria, avrei tradito tutti i principi che i miei mi avevano inculcato se mi fossi abbandonato agli eccessi. Questo vuol dire avere basi solide. Avevo ventiquattro anni quando misi piede a Londra per la prima volta, non ero mica un ragazzino incosciente. Dopo tanta gavetta ero pronto per il successo, ma d´altro canto ero anche sufficientemente scaltro per non cadere nelle trappole e nelle lusinghe della celebrità. Ho solo avuto una paura costante in vita mia, che la voce potesse abbandonarmi da un momento all´altro o che qualche malattia mi costringesse all´inattività. Per il resto, io e mia moglie siamo dei borghesi abitudinari. A Londra abitavamo in una villa magnifica di mattoni rossi, così quando Dean Martin mise in vendita la sua magione di Bel Air, che era quasi identica, la comprammo e la arredammo con tutti i vecchi mobili».
Giura che un gallese non tradisce mai le sue origini, che lui è esattamente quello che era quando la sera suo padre tornava a casa stanco morto e sporco di carbone e lui lo assillava imitando Lonnie Donegan. «Ancora non riesco a capacitarmi della fortuna che ho avuto, il mio primo disco in classifica, quando comprai il Sunday Times e sopra c´era scritto il mio nome. La mia vita cambiò da un giorno all´altro, il telefono cominciò a suonare: concerti, interviste alla radio, apparizioni tv». Poi una stella nella Walk of Fame nel 1989 e il titolo di "Sir" conferitogli dalla Regina Elisabetta nel 2006. «Ma niente è stato più gratificante del giorno in cui dissi a mio padre: "Da domani non scenderai più in miniera"».