Marco Masciaga, Il Sole-24 Ore 18/7/2010; Riccardo Sorrentino, Il Sole-24 Ore 18/7/2010;, 18 luglio 2010
RUPIA, UN SIMBOLO PER CONTARE
Il graphic designer del momento (e forse dell’anno) è un ragazzo indiano di 32 anni che, prima di diventare così famoso da non poter più tenere il telefonino acceso, quanto a gavetta non si è fatto mancare nulla. Ha progettato gabinetti per un piccolo studio d’architettura di Chennai; ha ballato una sola estate al gruppo Tata (stagista, mica dipendente) e fatto il grafico in una rivista per nerd
irredimibili chiamata Intelligent Computing Chip. Solo dopo sono venute la laurea, il master e il PhD.
Bei passi in avanti, non c’è che dire. Ma ben poca cosa rispetto a quanto gli è accaduto giovedì quando D. Udaya Kumar si è guadagnato il suo strapuntino nella storia del boom economico indiano al fianco di imprenditori come Narayana Murthy e leader politici come Manmohan Singh. E lo ha fatto a modo suo, da graphic designer, vincendo il concorso indetto dal ministero delle Finanze per dare alla rupia indiana un simbolo che dovrà collocare la valuta di New Delhi nell’olimpo delle grandi monete dell’economia mondiale.
Tempo qualche mese (al massimo sei in India e almeno 18 per il riconoscimento a livello mondiale) il nuovo simbolo della rupia indiana sarà ufficialmente lassù, al fianco di quelli - ultimamente un po’ ammaccati, ma pur sempre prestigiosi - del dollaro, dell’euro, della sterlina e dello yen. E lontano - il più possibile, s’immagina- dalle sue sorelle povere, ovvero le tante rupie (pakistane, cingalesi, nepalesi) di incerto valore e ancor più dubbio prestigio che occupano inutilmente spazio nei portafogli di chiunque batta le strade dell’Asia del sud.
«Al di là degli ovvi aspetti simbolici spiega Ajit Ranade, chief economist dell’AdityaBirla Group-credo che l’assegnazione di un simbolo alla rupia sia un passo nella giusta direzione in vista della progressiva internazionalizzazione della nostra valuta. Oggi il Pil indiano è, a parità di potere d’acquisto, il quarto del mondo e nel giro di 10-15 anni sarà probabilmente il terzo, dopo quelli di Stati Uniti e Cina. E siccome l’Indiaè un paese con una grande diaspora, che va dal Golfo Persico fino a Singapore, non è così assurdo immaginare un giorno in cui a livello internazionale ci saranno transazioni in rupie, esattamente come oggi ci sono quelle in dollari. In questa prospettiva un simbolo ufficiale per la valuta non può che essere benvenuto».
A scegliere il progetto grafico di Udaya è stata una commissione che ha passato al vaglio 3mila proposte, ne ha selezionate cinque e ha infine puntato il dito su quella che, a suo modo di vedere, meglio rispecchiava «la cultura e l’ethos» del paese. Il risultato è una R maiuscola che ha perso per strada la linea verticale e ha inglobato due decisi tratti orizzontali che, oltre a richiamare l’alternanza di chiaro e scuro del tricolore indiano, introducono un concetto, quello di uguaglianza, che almeno a parole sta molto a cuore alla classe politica indiana. Non solo. Il risultato finale somiglia a un incrocio tra una lettera dell’alfabeto romano e una di quello Devanagari che sta alla base dell’hindi, del sanscrito e di un’altra manciata di lingue del subcontinente.
Senza nulla togliere ai colti rimandi linguistici e al sicuro appeal della bandiera (specialmente in un paese nazionalista come l’India) forse è stata proprio la trovata di inserire nel simbolo l’idea dell’eguaglianza ad aver sedotto la commissione. «Il nostro paese - spiega Ashis Nandy, un sociologo della politica al Centre for the study of developing societies di New Delhi - è molto più egualitario di quanto non dicano le statistiche sul Pil procapite. Puoi essere ricco sfondato, ma continuare ad appartenere a una casta inferiore. Oppure non avere un soldo ed essere rispettato solo perché sei un bramino. O ancora essere un burocrate malpagato, ma detenere un potere almeno pari a quello di tanti imprenditori di successo. Nello stato in cui sono nato, il West Bengal, non è affatto scontato che un poetastro goda di minor prestigio di un ministro. L’India è un paese troppo complesso e sfaccettato per poter dire con certezza chi conta più di chi. Qui si può essere uguali in modi molto diversi e in questo credo che il simbolo non sia così sbagliato».
Ma limitarsi a riflettere sul concetto di eguaglianza tra gli indiani significa mettere a fuoco solo le ragioni che hanno decretato la vittoria del simbolo disegnato da Udaya. Con il rischio di perdere di vista quelle, come lo straripante desiderio di affermazione degli indiani, che più di un anno fa hanno spinto il governo a indire il concorso. «Il nostro spiega Nandy - è un paese alla disperata ricerca di prestigio internazionale e per molti indiani l’idea di collocare la propria moneta sullo stesso piano di quelle di paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito e il Giappone può essere davvero una "botta di autostima". Per la maggioranza degli abitanti di questo paese- penso a chi vive lontano dai grandi centri urbani - la notizia dell’adozione di un simbolo per la rupia è destinata a significare meno di nulla. Ma per i politici, i burocrati e soprattutto l’esuberante ceto medio urbano non sarà così. Siamo un popolo che sente disperatamente bisogno di simboli tangibili del proprio nuovo status nel mondo e che per il momento, obiettivamente, non ha moltissimo a cui aggrapparsi. La verità è che continuiamo a soffrire di un’insicurezza che ci è rimasta addosso anche dopo la fine del colonialismo. Sentiamo il bisogno di essere all’altezza degli altri». Un desiderio di uguaglianza forse meno romantico, politicamente corretto e rassicurante di quello che gli occidentali, invariabilmente turbati dalle enormi disparità sociali indiane, vorrebbero riconoscere nel paese. Ma di certo non meno denso di significati per un popolo che sente, oggi più che mai, di poter finalmente guardare negli occhi il resto del mondo. Marco Masciaga • L’INFLAZIONE MINACCIA DI ROVINARE LA FESTA - La democrazia e le caste. La tecnologia avanzata di Bangalore e l’istruzione elementare limitata, obbligatoria solo da poche settimane.L’alta finanza e la povertà più cupa. Mai cliché è rimasto appropriato come quello dell’India misteriosa, anche in economia, capace com’è stata di superare la crisi con slancio - è cresciuta del 6,7% nel 2009- ma ora più a rischio di altri paesi di arenarsi e di trasformarsi in una promessa mancata.
La nuova fiammante rupia non inganni nessuno. La società indiana resta elitaria, il suo capitalismo è dominato dalla burocrazia statale e, dove è più libero, appare invece oligarchico, legato a pochi grandi imprenditori. Solo i grandi numeri, la sua enorme popolazione, sembrano permettere l’emergere di inattese eccellenze, che stupiscono il mondo. L’economia ha però una fame cronica di risorse per finanziare l’adeguamento di una rete di infrastrutture ormai inappropriata alle ambizioni e alle necessità dell’India.
Dietro le nuove banconote, c’è quindi una realtà molto meno moderna ed efficiente di quanto certe cronache lascerebbero pensare. La moneta, che quei biglietti materializzano, perde valore piuttosto rapidamente: l’inflazione è poco al di sotto dell’11%, escludendo però i prezzi dei prodotti alimentari ancora vittime dell’inclemenza di un monsone quanto mai debole che dall’anno scorso stringe quindi il paese, ancora molto dipendente dall’agricoltura, in una morsa molta stretta.
Il costo di quel denaro è quindi destinato a salire. Per la banca centrale di Mumbai l’inflazione - una vera tassa sui poveri, in India - implica la necessità di aumentare i tassi: a fine mese potrebbero quindi raggiungere il 5,75 per cento, un livello ancora relativamente basso (i tassi reali sono negativi), ma superiore a quello offerto da altri paesi. La rupia continuerà a restare così sotto tensione, stretta com’è tra la ricerca di rendimenti interessanti degli speculatori, che tra febbraio e maggio le hanno regalato una corsa del 7% rispetto al dollaro, e la pressione della mano pubblica, che la tiene sotto controllo per calmarne gli eccessi. Anche allo scopo di non danneggiare le esportazioni, non fondamentali per l’economia come quelle cinesi, ma comunque importanti.
Il fronte estero sta infatti diventando strategico per l’India. Più delicato di quanto l’effettivo livello delle esportazioni - il 24% del Pil contro il 55% medio degli altri paesi asiatici - lascia supporre. Il primo sbocco commerciale non sono infatti gli Stati Uniti, né la Cina ma l’affannosa Europa. «Le continue ripercussioni della crisi del debito sovrano europeo potrebbero essere un forte vento contrario che soffierà sull’economia indiana per i prossimi anni», spiegava quindi un mese fa Stephen Roach, oggi responsabile per l’Asia della Morgan Stanley, e un tempo profeta troppo in anticipo della incipiente crisi.
Frenare l’apprezzamento del cambio, però, è costoso: richiede faticose e incomplete "sterilizzazioni" della moneta creata per venderla sul mercato valutario, con nuove pressioni sull’inflazione; e, con le sue probabilità di insuccesso, mantiene vive le aspettative di un rialzo della moneta. La scelta di raffreddare la valuta può così, paradossalmente, attirare troppi capitali "speculativi", come ricorda nel suo ultimo rapporto il Fondo monetario internazionale: l’India - spiega infatti l’organizzazione di Washington dà troppa importanza al cambio e alle politiche valutarie. Un controllo troppo stretto sulla rupia priverebbe tral’altroil paese di uno strumento per contenere non solo l’inflazione (all’ingrosso, come viene misurata qui), ma anche qualche rischio di surriscaldamento dei prezzi delle attività finanziarie e immobiliari alimentati dai flussi finanziari dall’estero. La sindrome di cui soffre oggi la Cina.
Va dunque tenuta d’occhio, quella rupia. Senza farsi incantare dalla sua nuova grafica, ma pensando piuttosto alle strozzature e alla complessità dell’economia che si agita "dietro di lei" e alla effettiva portata delle ambizioni della politica economica del paese, che pensa di poterla gestire senza troppi effetti collaterali. Il rischio di fallire non può essere ignorato. Riccardo Sorrentino