Ugo Tramballi, Il Sole-24 Ore 16/7/2010;, 16 luglio 2010
A 2MILA METRI SOTTOTERRA NELL’ELDORADO SUDAFRICANO
Andare in miniera è un’espressione senza significato finché non si scende. Fino a quando un montacarichi non precipita per chilometri verso il centro della terra; non si cammina in una città di tunnel affollati di gente e di mezzi; non si arriva a 2.340 metri e 50 gradi di calore, dove la squadra di Mamba deve scavare una tonnellata di roccia per ricavare meno di cinque grammi d’oro.
Il Sudafrica senza miniere non sarebbe il Sudafrica. Come l’Arabia Saudita senza petrolio. Avrebbe avuto una storia diversa se nel luglio 1886 un tale George Harrison non fosse inciampato su una pepita d’oro, protuberanza del Witwatersrand’s reef, la più grande tesoreria naturale del mondo. Nei 25 anni successivi le prime cinque imprese minerarie sudafricane avrebbero attratto dall’estero investimenti per 200 milioni di sterline d’allora. Da oltre un secolo il Sudafrica è il principale produttore mondiale di oro: il 28% più il 40 delle riserve. Ma sono 60 i minerali scavati quaggiù.
Dagli anni 90 le cose non sono più quelle di un tempo e l’ultima crisi ha colpito duro. Ma il settore continua a dar da vivere a 5 milioni di sudafricani, costruisce il 6,2% del Pil e sale fino al 16 se si contano i contributi indiretti. Senza le miniere Cecil Rhodes sarebbe morto di tisi in Inghilterra, qui non sarebbero venuti Barney Barnato, Alfred Beit, J.B. Robinson, la famiglia Wernher. Senza l’oro, i diamanti e il platino non ci sarebbe stato De Beers e Ernest Oppenheimer non avrebbe creato l’Anglo-American. Milioni di neri non sarebbero venuti da tutta l’Africa a fare i minatori, non esisterebbero le township né l’apartheid. Ogilvie Thompson, successore di Oppenheimer, non avrebbe mai detto «L’apartheid non è solo immorale, è economicamente stupido». E Nelson Mandela avrebbe fatto l’avvocato nel noioso foro di Port Elizabeth. Senza tutto questo nemmeno Johannesburg sarebbe esistita. Le miniere sono l’Iliade, l’Odissea e l’Eneide del Sudafrica.
«Questa scatola di metallo la tenga alla cintola della sua tuta. La apra se c’è un incendio o il gas invade il tunnel. Tenga il boccaglio fra i denti. Le darà ossigeno per 30 minuti », spiega Many Da Silva, il direttore della miniera. E poi? «Una squadra di soccorso cercherà di raggiungerla entro mezz’ora». Ma qui a Evander, come in tutte le miniere del Sudafrica, la sicurezza è una cosa seria. Gli incidenti sono rari. «Una miniera sicura è una miniera felice», dice un cartello all’ingresso del pozzo numero 8.
Casco e una tuta leggera. Alla cintola guanti di gomma, il generatore della lampada sull’elmetto e "la-scatola-salva-vita-permezz’ora- poi-si-vedrà". Scomodi para-ginocchia, calzettoni di lana e stivali di gomma. Il montacarichi scende per 2mila metri, 16 metri al secondo. Arrivati in fondo non si distingue nemmeno un punto della luce lasciata due chilometri più su. Ma ciò che stupisce è il mondo sotterraneo che formicola dentro decine di chilometri di tunnel. Centinaia di minatori, camion dalle ruote immense, cavi per la luce e tubature per l’ossigeno che rinfrescano l’aria; rotaie, vagoni con tonnellate di roccia, trenini elettrici per trasportare i minatori. La logistica attorno a una miniera d’oro è enorme e costosa. Qualche mese fa Harmony, la società proprietaria di Evander, due ore a nord di Johannesburg, ha ristrutturato: i minatori erano 4mila, ora sono 2.160. Dal 1958, quando è iniziata la produzione, Evander ha prodotto 209 milioni di tonnellate di roccia e 1.499 di oro. Si stima ce ne sia un altro milione e otto di once da estrarre.
Sul trenino di ferro viaggiano il capitano di miniera Adri Weraart, il geologo Naph Potegu e Fulvio Cernecca, 75 anni, minatore in pensione: l’unico venuto qua sotto «per piacere personale». Fulvio è arrivato da Trieste nel 1955 e non sapeva niente di miniere. «Ma poi me son ritrovato così bene. Ok, ho avuto anche bruti accidenti: mi son roto la schiena e il ginocio. Ma ho sempre lavorato», spiega in italiano anglo-giuliano. Minatore semplice, poi capitano. Sotto terra per 40 anni.
Dopo un paio di chilometri in treno, per scendere ancora nelle viscere più profonde della miniera c’è una specie di seggiovia da prendere al volo e a cavalcioni. Ancora una marcia e finalmente, dietro una porta taglia fuoco si entra nell’anticamera dell’inferno.Ci sono più di 50 gradi, umidi. Qui non c’è impianto di raffreddamento. Il casco e i para-ginocchia sono essenziali perché ora il tunnel non è più alto di un metro. il fondo di Evander: 2.340 metri in verticale e tre chilometri e mezzo in orizzontale dall’uscita più vicina. qui che il minatore capo Mamba e la sua squadra scavano la roccia. Sopra le loro teste corre il filone del Witwatersrand, quello sul quale era inciampato George Harrison. Un’ora per arrivarefin qui,cinque ore di lavoro e un’altra per uscire. A volte più di un turno al giorno per sei giorni la settimana. Tutta la tecnologia della miniera si è fermata alla porta taglia fuoco: si buca la roccia con il martello pneumatico, s’infila il candelotto di gelatina che esplodendo spezza le viscere della terra. Poi la roccia va portata fuori con le mani. L’oro è tutto attorno ma non si vede, ne intuiscono la presenza solo i geologi. Appare dopo che le rocce sono portate in superficie, sbriciolate e lavate: la polvere d’oro resta sul fondo. Sulle piazze internazionali vale 1.220 dollari l’oncia ma qui sotto è solo un obiettivo da raggiungere per circa 450 euro al mese che nelle township non è uno stipendio cattivo. Ogni minatore della squadradi Mamba deve scavare 20 metri quadri al mese, cioè 4,2 tonnellate di roccia, cioè 4,7 grammi d’oro: un’oncia pesa 32 grammi.
Mamba viene dal Botswana, la gente del suo team da Zimbabwe e Mozambico; il capitano Weraart è afrikaner, Naph il geologo zulu e Fulvio triestino. Ma si capiscono parlando fanakalò, un insieme di tutti gli idiomi, la lingua franca delle miniere sudafricane. Tornare su dopo mezza giornata con la tuta fradicia di sudore e le ossa rotte, è come aver giocato da soli contro la nazionale tedesca. «La prima volta è eccitante», spiega il capitano Weraart. «Il problema è che devi tornare sotto anche domani, dopodomani, il giorno dopo e poi ancora». «Io in miniera ci tornerei eccome a lavorare. Pure domani», conclude Fulvio.