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 2010  luglio 17 Sabato calendario

IL MADE IN ITALY TORNA A VENDERE

Capsule per vino e spumanti, tappi di ultimo grido in polilaminato e pvc. Tecnicamente, chiusure per l’enologia. Un business col botto per Giovanna Macchi e Michele Moglia, i due soci della Enoplastic di Bodio Lomnago, paesino acquattato e laborioso sul lago di Varese.
La loro impresa ha attraversato la grande crisi senza lasciarci le penne, esportando il 40% del fatturato, tornato nel primo semestre 2010 a livelli pre crisi. «In più abbiamo aperto consociate nei grandi paesi vinicoli, a cominciare da Oakland (Nuova Zelanda) e Serfiled (Napa Valley, California)», racconta la signora Macchi. «Dai capannoni di Bodio esce il semilavorato per i mercati di consumo, dove vengono finiti e distribuiti, permettendoci di risparmiare sui tempi di consegna». Il resto lo ha fatto a maggio il lubrificante dell’euro debole.
La Enoplastic nasce nel 1957 dal papà di Giovanna. E’ la tipica azienda familiare capace però nel 2000 di aprirsi ad altri soci (i Moglia), superando la sindrome ancestrale del padre padrone. Un decennio passato sviluppando materie prime e tecnologia. «Solo nel 2009, l’anno più nero, abbiamo investito il 10% del fatturato in R&S - prosegue l’imprenditrice - adesso stiamo completando un nuovo stabilimento di 8mila mq totalmente coperto da pannelli fotovoltaici».
La morale di Enoplastic è semplice per chi vuol sentirla: la crisi non può far paura a chi sa innovare e aprirsi a nuovi assetti e nuovi mercati. «Internazionalizzandosi anche nella catena di fornitura». Nasce da qui il boom del loro export.
Dalle Prealpi lombarde alla porta dell’Est, da Varese a Pordenone, ecco un altro distillato di quelle 26mila imprese italiane grandi esportatrici che ci stanno tenendo a galla. Qui la Friul Intagli di Inaco Macan, nome mitologico di chi nella vita si è reinventato più volte, macina numeri da capogiro. La sua azienda, dalla minuscola Portobuffolè, lavora soprattutto per la grande distribuzione, mobili in kit per Ikea e non solo, con un fatturato in crescita da dieci anni. Salvo il 2009 quando il fallimento di una grande catena inglese gli ha fatto perdere quote, recuperate nel primo semestre 2010 con un +23% di export. Tra la Marca e Villanova, dove si snoda un altro pezzo di Friul Intagli, non ci si ferma un secondo. «Nel biennio della crisi abbiamo investito oltre 20 milioni», fa di conto il signor Inaco. «L’anno scorso abbiamo ultimato una fabbrica dedicata ad Ikea di cui siamo fornitori mondiali; nel 2011 verrà pronto un centro logistico con magazzini alti 35 metri in grado di consegnare in 24 ore in tutto il mondo». Da qui partiranno 130-140 mega tir al giorno, pronti a imbarcarsi sulle navi porta container o a infilarsi sulle autostrade ingolfate del Centro Europa. «Perché per noi l’Italia, ormai, è solo una regione…», filosofeggia di geopolitica Macan. Dieci anni fa Friul Intagli faceva antine per cucina, subfornitura classica, adesso si è reinventata campione del low cost entrando in un business che molti, sbagliando, ritenevano appannaggio dei cinesi. Morale: producono le librerie Billy per tutti gli store svedesi in giro per il globo. «Dovremmo essere a 44 milioni di pezzi», snocciola orgoglioso il signor Inaco. Il segreto? «Essere competitivi sui servizi e la logistica. I cinesi, invece, hanno solo il prezzo». Così nel bel mezzo di una manifattura presa in controtempo dalla crisi e alla vigilia dell’applicazione della terribile Basilea 3, che setaccerà i coefficienti patrimoniali delle migliaia di aziendine italiane costringendole a capitalizzarsi meglio per avere più credito, la ripartenza del nostro export anche nei settori tradizionali sta diventando una bella tenda ad ossigeno. La buriana purtroppo non è passata: di nuova occupazione non se ne vede in giro, sui mercati asiatici ci siamo poco, e il rilancio nuota nelle acque di una moria industriale selvaggia che nell’ultimo biennio ha fatto molta selezione. Eppure per chi sa innovare il mare aperto sta diventando un bazar pieno di occasioni. Fabio Storchi, presidente della Comer Industries di Reggiolo, racconta la metamorfosi al telefono da Shangai, dove ha installato da qualche anno uno stabilimento per il mercato locale. La sua azienda produce trasmissioni meccaniche, turbine eoliche e per generatori a vento, un business «green» che sta crescendo molto in Asia-Pacifico, «garantendoci un più 25% di export sul 2009». Un’onda che rialza un bel pezzo di meccanica reggiana, nata nel dopoguerra per meccanizzare l’agricoltura della Valpadana e finita per accendere lo sviluppo industriale di un intero paese, insieme a quel tessuto di artigianato sapiente che ne fa da indotto e che nell’ultimo biennio è rimasto in apnea. Anche se i numeri sul primo semestre 2010 dimostrano che la ripresa sta soffiando per le imprese più strutturate capaci di intercettare la domanda dei paesi Bric, un po’ meno per il corpaccione dei Piccoli non agganciati alle filiere internazionalizzate. «Non è importante cosa fai, l’importante è come ci si organizza su prodotto e processo», è la cartolina cinese di Storchi.
Altro caso arriva non per nulla da Breganze, Alto Vicentino, dove la gloriosa Laverda, 137 anni di storia segnata simbolicamente dal rombo delle sue motociclette, si sta concentrando sul ramo macchine agricole: mietitrebbie per la raccolta cereali e prodotti in granella. Dagli attrezzi agricoli e gli orologi per campanile del fondatore Pietro, alle falciatrici di ultima generazione. In mezzo, un’intera storia italiana. «Lavoriamo soprattutto all’estero», spiega il direttore generale Scarin. «Europa, Russia, Nord Africa e Centro America». Contoterzisti o vendita diretta alle aziende. Il comparto agricolo è stato uno dei più colpiti dallo tsunami globale, ma Laverda ha saputo riguadagnare export anche grazie ad una intera gamma di mietitrebbie prodotta in Danimarca appena rientrata a Breganze. «Un investimento che sta pagando», ragiona Scarin. Si torna in casa per produrre meglio ed esportare di più. La rincorsa solo sul prezzo è finita. Addio delocalizzazioni...