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 2010  luglio 17 Sabato calendario

GEORGE STEINER: COSI’ TINA BROWN MI LICENZIO’ DAL «NEW YORKER»

«Il "New Yorker" è una rivista unica al mondo. Nella storia della cultura europea non esiste qualcosa di simile. La lista dei suoi illustri collaboratori (Borges, Nabokov, Salinger, Brodskij) è una specie di Panthéon della letteratura del Novecento». George Steiner, una delle voci più autorevoli della cultura contemporanea, non nasconde la sua commozione nel ricordare gli appuntamenti settimanali che per oltre trent’anni hanno segnato la sua attività di critico letterario sullo storico magazine newyorchese. Dal 1966 al 1997, il celebre comparatista ha offerto ai numerosi lettori del «New Yorker» – oggi gli abbonamenti superano di gran lunga il milione’ più di centotrenta articoli. La sua rubrica fissa ha dato vita a una pinacoteca in cui è possibile ritrovare brillanti ritratti, solo per citarne alcuni, di Beckett e Orwell, Borges e Forster, Lévi-Strauss e Solženicyn, Eliot e Conrad, Canetti e Rilke, Bulgakov e Foucault, Cellini e Benjamin, Brecht e Cioran, Pessoa e Céline.
Partendo da un romanzo o da una biografia, da un libro di storia o di filosofia, da un carteggio o da un saggio, Steiner ha sempre cercato di leggere i testi in profondità: prendere le mosse da una parola o da una frase per poi svelare inediti, e quasi sempre provocatori, cortocircuiti tra scrittura e mondo. Un esercizio della critica che si è incarnato in uno stile creativo capace di catturare l’essenza di un autore in una serie di suggestive e felici immagini metaforiche (la prosa di Bernhard, per esempio, ricorda in alcuni momenti una «sega monotona e mal affilata che ronza e stride senza fine»).
Di questa straordinaria avventura al «New Yorker» offre oggi una nutrita testimonianza l’ultimo volume di Steiner, Letture, a cura di Robert Boyers, pubblicato recentemente da Garzanti (pp. 398, 22). Raccoglie ventotto saggi, in cui
e figura anche una sezione interamente italiana con interventi sullo scrittore Salvatore Satta e su libri dedicati a Cavour, Garibaldi, Verdi e al rapimento Moro. Il grande comparatista’ che incontro a Milano, in una saletta riservata del ristorante «La Cometa» – accetta con gioia di ripercorrere le tappe significative della sua esperienza. «Nel 1966, dopo la fine della collaborazione del grande critico Edmund Wilson, ricevo una telefonata da William Shawn che mi chiede di recensire la biografia di Churchill scritta dallo stesso figlio dello statista inglese. Non era un buon libro, ma conteneva spunti interessanti. Subito dopo mi chiese un’altra recensione e poi un’altra ancora. E, dopo avermi messo alla prova per ben tre volte, mi propose una rubrica fissa...». «Shawn – continua Steiner – era un maniaco della scrittura. Spesso mi telefonava anche di notte, dimenticando il fuso orario tra New York e Ginevra, per discutere una virgola, un qualsiasi dettaglio stilistico. Per me l’esercizio della critica deve tradursi in uno stile alto. Molti colleghi accademici, che scrivono male, mi hanno accusato di essere un amateur, un "dilettante". Ma l’ultraspecialista non sarà mai un vero critico...».
In tre decenni di intenso lavoro, il comparatista ricorda la grande libertà di cui ha goduto nella scelta dei temi e dei libri da recensire. «Una sola volta – precisa Steiner – Shawn mi spiegò che non avrebbe potuto pubblicare un mio articolo che, tra l’altro, gli era piaciuto. Avevo analizzato la ristampa di una biografia di un’ebrea romantica, Rahel Varnhagen, che Hannah Arendt aveva pubblicato nel 1958. Nel saggio mi chiedevo che senso avesse rimettere in circolazione, dopo tanti anni, un’opera giovanile ormai superata. Ma Shawn mi rivelò che Hannah, in fin di vita all’ospedale, non avrebbe certo apprezzato. Mi sembrò una scelta umanamente giusta...».
Qualche raro «rifiuto» però venne anche da Steiner. «Ho avuto una regola nella mia vita che ho sempre cercato di rispettare: non parlare mai di autori che non apprezzo o con i quali ho avuto dispute personali. Per questa ragione, tre o quattro volte mi è capitato di non accogliere l’invito...».
Per Steiner, infatti, la grande critica è innanzitutto un debito d’amore verso i testi che abbiamo letto e che ci hanno entusiasmato. « rarissimo – spiega il comparatista – che io possa parlare male di un libro: in genere non ne parlo, se non ne riconosco il valore. Sono un critico positivo: scrivere di un libro significa anche saldare un debito di gratitudine. Uno dei rari casi in cui ho trasgredito questa regola riguarda proprio un articolo sul "New Yorker" dedicato allo scrittore Cioran: le sue opere odorano di falso...».
L’articolo su Cioran non a caso figura nell’antologia. «La selezione dei miei saggi – confessa Steiner’ è stata liberamente effettuata dal curatore del volume: Boyers ha scelto e io ho visto l’indice solo quando ormai il libro era in bozze. Mi è sembrata un’ottima cernita. Sono soprattutto contento per la presenza degli interventi su Albert Speer (mi intrigava il suo autentico amore per Hitler), su Lévi-Strauss (che ho contribuito a far conoscere agli americani), sul carteggio Benjamin-Scholem (uno dei capolavori filosofico-letterari del secolo), sullo storico dell’arte Anthony Blunt (spia al servizio dei russi) e sul romanziere italiano Salvatore Satta (purtroppo la speranza che il mio articolo incoraggiasse traduzioni delle sue opere è stata vana). Ma la mia assoluta preferenza va al saggio sul gioco degli scacchi: mi sono divertito tantissimo a rileggere Nabokov e altri scrittori alla luce di questo straordinario gioco di intelligenza. Gli scacchi rappresentano il simbolo del conflitto ultimo del pensiero. Sembra che siano espressione di una musica matematica...».
E a proposito di scacchi, Steiner ci tiene a ricordare un saggio che finì per occupare quasi l’intero numero del « New Yorker» e che successivamente fu pubblicato come libro. «Si tratta’ continua sorridendo il critico’ del resoconto dello storico scontro in Islanda tra Bobby Fischer e Boris Spassky. Fischer, che all’ultimo momento aveva deciso di non giocare, arrivò con venti minuti di ritardo. Tutti pensammo che avrebbe perso. Invece cominciò a fare le prime mosse e distrusse l’avversario. Ho visto nel campione la crudeltà pura: niente poteva sedurlo. Alcuni a lui vicino mi raccontarono che aveva ricevuto una telefonata da Kissinger per convincerlo a giocare in nome degli Stati Uniti. Ma Fischer chiese chi fosse questo Kissinger. E quando seppe che si trattava del Segretario di Stato sbottò: cosa vuole da me questo stupido che non sa nulla di scacchi?». Ma questo lungo articolo non poteva figurare nell’antologia. « Letture – osserva Steiner – raggiunge già quasi quattrocento pagine. Avrei voluto, certamente, che altri miei interventi fossero presenti: quello su Broch (autore che stimo tantissimo) o quello su Celan (che avevo contribuito a far conoscere al pubblico anglosassone attraverso le pagine del "Times")...».
Succedere al «New Yorker» al grande critico Edmund Wilson richiedeva un impegno particolare. «Per me era un grande onore’ racconta Steiner’ e così decisi di scrivere a Wilson per chiedergli consig l i . Mi rispose che l’unico consiglio che poteva darmi riguardava la vita privata: "Non divorzi mai; i miei tre divorzi mi hanno costretto a devolvere alle ex mogli tutti imiei notevoli guadagni di collaboratore…"».
Al trentunesimo anno però un incidente diplomatico segna la fine del sodalizio con il «New Yorker». «All’epoca era Tina Brown’ spiega Steiner’ al timone della rivista. Un giorno mi chiama la sua segretaria dicendomi che la Brown voleva parlarmi con urgenza e mi invitava a pranzo a New York. Non l’avevo mai vista prima e appena arrivato nel celebre ristorante Four seasons mi chiese a bruciapelo: " vero che lei, durante una cena a Londra, ha affermato che io trivializzo e barbarizzo la rivista?". Risposi di sì. E lei, con grande freddezza, mi disse che la mia collaborazione era finita. Non ho mai indagato per sapere tra gli otto invitati presenti nella fatale riunione londinese chi fosse stato Giuda...». Il ricordo di quella rottura è ancora vivo. Ma, un momento prima di salutarmi, Steiner aggiunge: «Il mio agente con grande saggezza mi confortò: "George puoi essere contento. Hai tenuto la tua rubrica per tantissimi anni e prima o poi doveva finire..."».
Nuccio Ordine