Sandro Cappelletto, La Stampa 17/7/2010, 17 luglio 2010
INTERVISTA A MARIO BORTOLOTTO: « IL MIO BALLO IN MASCHERA»
La casetta di Trastevere di Mario Bortolotto adesso è ordinatissima. Anni fa, per accomodarsi in salotto, si dovevano sfiorare cataste di libri, sdraiate sul pavimento, impilate in verticale. Ora tutto è stipatissimo, ma sembra in ordine. Alle spalle della poltrona preferita, in posizione isolata, spicca Flaubert, Bouvard e Pécuchet, Lo sciocchezzaio, «volume sempre indispensabile».
«Fare critica significa esprimere la propria opinione. Il suo pregio è essere inutile e dunque necessaria». Deve essere severa? «Il faut décourager les arts, diceva Léon Gard, pittore e critico».
Nato a Pordenone, lasciata per Roma, «sovraffollata, congesta, ma mi ci trovo benissimo», 83 anni molto attivi e spiritosi, la valigia sempre pronta, Bortolotto pubblica ora Corrispondenze (Adelphi, pp. 511, e36), una raccolta di articoli, saggi, programmi di sala. «Per Adelphi, certo. Conosco il suo dominus, Roberto Calasso, da quando aveva diciannove anni. Prometteva già bene». Un percorso critico lungo quaranta anni, senza una nota e anche senza una data. E neppure un’indicazione dell’occasione, della serata, dell’anniversario per cui quelle pagine sono nate.
«L’ho immaginato come un discorso sui miei gusti. Preparandolo, ho riscontrato che nel tempo non sono poi tanto cambiati».
Il libro è dedicato a Marlene e Pietro Gallina, che a San Salvador de Bahia hanno inaugurato un centro culturale dove si insegnano molte cose utili ai ragazzi di strada e dove Bortolotto, da qualche anno, ama svernare. Il carattere, lo stile della prosa restano inconfondibili. Intuizioni preziose («Brahms dà il massimo alla lettura. La scrittura si stratifica, esigendo un ascolto capillare: garantisce il rigore, senza alienare la libertà») si accompagnano a squisitezze tipiche sue. Parlando di Franz Liszt: «Fu una forza occulta della musica, un testo segreto aperto, ad oggi, a letture quasi iniziatiche, se non proprio un Libro ieroglifico o un mallarmeano grimoire». E Félix Lope de Vega Carpio, lo chiama semplicemente «Lope».
Professore, la dicono snob.
«Per nulla. Certo quando una studentessa mi porta la tesi su Francesco Cilea e scrive che quell’anno ”il compositore perse il suo povero papà”, le dico che deve correggere con ”perse il padre”. Ma non è la stessa cosa?, mi chiede lei. Nella vita sì, in una pagina scritta no».
Lei ha insegnato a lungo. Venezia, Salerno, Roma: ne ha un bel ricordo?
«Dell’Università italiana oportet tacere».
Un tratto comune di «Corrispondenze» è lo spazio riservato agli interpreti. Buono o cattivo che sia, il giudizio è comunque veloce e appare quasi sempre alla fine dello scritto, dopo il discorso sull’opera.
«L’idolatria per gli interpreti è un segno di dilettantismo tra i più sfrenati. A loro volta, gli interpreti che continuano per anni e anni a eseguire le stesse cose sono inaccettabili».
Amori che persistono: Verdi è il primo fra tutti?
«Possiede un’immediatezza contadina, miracolosa. E nello stesso tempo è stato capace di una lenta assimilazione che lo ha portato a risultati impensabili all’esordio. Il primo atto di Traviata è folgorante: mezz’ora costruita su un tempo di valzer, durante la quale accade di tutto. L’ingresso di Sparafucile in Rigoletto: lui appare e accade qualcosa, nella musica, che non si dimentica. Ma l’opera prediletta è Un ballo in maschera: una tensione che non si arresta mai».
Più Verdi che Wagner?
«Quando si scopre il Tristano, è amore a prima vista. Ma con l’andar del tempo, mentre l’ammirazione resta alta, l’amore è leggermente diminuito».
Non muta neppure la passione per l’operetta. Quale la capitale preferita, Londra, Parigi o Vienna?
«Gilbert and Sullivan sono straordinari, come Jacques Offenbach. Sentimentalmente, la predilezione è per Vienna».
Qual è stato il suo primo libro?
«Su Ravel, scritto quando avevo venti anni. L’ho bruciato. Poi un maestro e un amico come Franco Donatoni mi presentò a Ricordi e ho scritto il vero libro d’esordio, Introduzione al Lied romantico».
Lei si è molto occupato della musica del Novecento e contemporanea. E’ ancora possibile parlare di avanguardia?
«Per l’amor di Dio! Quelli che passano per essere compositori d’avanguardia sono semplicemente grandi compositori».
Chi, dopo i maestri del primo Novecento?
«Boulez e Stockhausen: geni come Stockhausen ne nascono solo quando il Padreterno vuole. Quando ho scoperto la loro musica mi è sembrato di non poter vivere senza. La critica è anche innamorarsi».
Boulez, Stockhausen e basta?
«Anche Berio. Alcune idee sono geniali: la citazione da Mahler in Sinfonia, il Concerto per due pianoforti e orchestra con il terzo pianoforte nascosto in orchestra, che in verità suona da protagonista».
Il libro di musica che ha amato di più?
«Filosofia della nuova musica di Theodor Adorno. Leggerlo è stato uno shock, come anche i suoi Minima moralia. Per i giovani studiosi italiani era un mondo che si apriva. Gli shock fanno bene».
In «Corrispondenze» cita tre volte Massimo Mila. Sempre per prenderne le distanze.
«Rappresenta tutto quello che non sarebbe il caso di rappresentare. Mila adorava Bartók, io ho un cauto distacco. E ha scritto Compagno Stravinskij. Ma come si fa a titolare un libro così? Stravinskij lo avrebbe preso a schiaffoni».
Quel titolo era anche un segnale rivolto a chi aveva letto Adorno, il modo in cui aveva contrapposto Schoenberg e Stravinskij. In ogni caso, le vostre sono proprio due idee diverse di concepire il mestiere dello scrittore di musica. A proposito, ma vale la pena scrivere di musica? In una conversazione su Mozart Saul Bellow dice: «Ci avviciniamo, ci avviciniamo, ma i fondamentali ci sfuggono sempre».
«Vale per tutte le cose, al fondo non si arriva mai. Capita qualche volta di essere all’unisono con un musicista, con una sua composizione. Scatta allora un’adesione totale, emotiva e intellettuale: mi piace questo».
Le piace anche, mentre scrive, raccontare, tenere sempre alto il livello della tensione e dell’attenzione. Modelli?
«Esempi, piuttosto. La Certosa di Parma di Stendhal e Lord Jim di Conrad. Letture necessarie a tutti, in particolare agli autori di teatro».
I tagli alla spesa pubblica per lo spettacolo e la cultura. Una questione che si ripropone da anni, ora in modo radicale.
«Il tempo passa e il problema non si risolve. I tagli sono spiacevoli, e la situazione è paradossale: ha visto il cartellone del San Carlo di Napoli? Striminzito, quasi invisibile, eppure gli stipendi vengono pagati. Se un ministro di Vienna o di Parigi non tenesse conto dei teatri, dei concerti, dello spettacolo, gli farebbero subito la festa. Qui no».