Daniel Vasquez Salles, Il Manifesto 15/7/2010, 15 luglio 2010
Gli undici calciatori spagnoli restano calmi sul terreno mentre ascoltano l’inno nazionale. Non cantano, anche se alcuni sembrano averne voglia
Gli undici calciatori spagnoli restano calmi sul terreno mentre ascoltano l’inno nazionale. Non cantano, anche se alcuni sembrano averne voglia. La radice del problema è che quell’inno dal ritmo energico non ha testo, ragion per cui alcuni borbottano la melodia disegnando con le labbra parole invisibili mentre altri sembrano immersi in pensieri occulti, inaccessibili ai milioni di spettatori che osservano dalla tv con occhio da psicanalista. Qualche anno fa il calciatore e ora allenatore del F.C. Barcelona, Pep Guardiola, finì sulle telecamere masticando una gomma mentre ascoltava l’inno nazionale. Le interpretazioni furono immediate. Qualcuno lo difese dicendo che la gomma serviva a calmare i nervi, altri e più numerosi lo additarono di essere irrispettoso e cattivo patriota per un comportamento agli antipodi dei sentimenti degli spettatori che socchiudevano gli occhi sotto l’effetto delle note musicali. Essendo un calciatore, dev’essere difficile sentirsi osservato da milioni di tifosi mentre stai in piedi, la schiena dritta, ascoltando un inno che non si può cantare per mancanza di parole e che, a essere onesti, non riesce a risvegliare sentimenti rivoluzionari e far assaltare la Bastiglia di turno. Negli ultimi anni ci sono state tante proposte quanti pochi consensi al momento di scegliere le parole. Poeti, letterati, anonimi cittadini hanno messo la propria capacità creativa al servizio del paese, ma i risultati sono stati insignificanti. Nessun testo è riuscito ad accendere lo spirito nazionale e accontentare le diverse realtà storiche della Spagna delle autonomie, nonostante uno nel 2008 - con il voto di una giuria composta tra gli altri da Emilio Casares, cattedratico di musicologia all’Università Complutense di Madrid, Theresa Zabell, due volte campionessa olimpica, e Manuel Jiménez de Parga, ex presidente del Tribunale costituzionale - sembrava essere riuscito a evitare ogni scoglio. Ma era un testo in ritardo di due secoli, affetto dalla tipica volgarità dei ritornelli infervoratori, incapace d’essere accettato da una generazione alla quale piace poco la metafora geofisica ma ancora meno vestire i panni di un giullare giallorosso che canticchia ritornelli che dicono «gloria ai figli che alla Storia danno giustizia e grandezza, democrazia e pace». La vittoria della nazionale spagnola al Mondiale in Sudafrica fa prevedere che la ricerca di una lirica che faccia coppia con l’inno tornerà a diventare una notizia. la punta di un iceberg chiamato «La Spagna come problema», titolo di un libro di Laín Entralgo nonché dibattito intellettuale sull’identità nazionale spagnola sottoposta a fanatici, pragmatici e intransigenti, con i «particolarismi» - termine brutto e ridicolo - basco e catalano come attori di una tragicommedia corale. La nazionale spagnola ha vinto 24 ore dopo un’enorme manifestazione catalanista a Barcellona, guidata dallo striscione «Siamo una nazione», e ciò è servito a ritardare di alcuni giorni il dibattito su cos’è la Spagna. Poche volte una partita e una vittoria sono arrivate in un momento tanto opportuno, anche se hanno provocato un aumento del consumo di litio a causa dei problemi di disturbo bipolare sorti nella popolazione di Catalogna. Noi figli degli antifranchisti catalani, generazione nata alla fine della dittatura, non abbiamo mai sentito la nazionale come parte della nostra realtà sentimentale, e in quanto senzapatria abbracciammo negli anni Settanta nazionali come l’Olanda, all’epoca una macchina da football capitanata da Johann Cruyff, giocatore di un Barcelona che era stato battezzato da un tifoso irriducibile di nome Manuel Vázquez Montalbán come «l’esercito disarmato di Catalogna». Ma la democrazia adatta la memoria, e da quel ragazzino che piangeva assistendo alla sconfitta dell’Olanda di fronte all’Argentina nel Mundial del 1978, all’uomo adulto che salta di allegria dopo la rete di Iniesta nella finale in Sudafrica sono passati trent’anni di democrazia, tre decadi di difficile convivenza con quanti non ammettono altra Spagna che quella vertebrata su una lingua e una bandiera, e «se non sei con me sei contro di me» è il loro grido di guerra. Ammetto che mi sono sorpreso a vedere la mia stessa immagine allo specchio, le braccia in alto, gridando gol, ben sapendo che il giorno dopo avrei rimesso la coscienza dei rinnegati della memoria sentimentale e, molto di più, a vedermi sottoposto al chiacchiericcio inarrestabile di alcuni adulatori della patria che ripetevano slogan moralmente criticabili come il popolare «A por ellos» (facciamogliela vedere). Aveva vinto la Spagna, la Roja, in cui giocavano otto calciatori del Barça, appartenenti a generazioni che non hanno mai vissuto il franchismo e che erano la maggioranza nella manifestazione che ha riunito un milione di persone nelle strade di Barcellona al grido di «Siamo una nazione». Molti di questi uomini e donne che da poco hanno superato la pubertà e che abbracciano la bandiera separatista hanno visto la partita della nazionale spagnola e hanno festeggiato la vittoria senza cattiva coscienza. A qualsiasi visitatore straniero la situazione avrebbe strappato la frase di Asterix e Obelix: «Sono pazzi questi galli». Però chi non abbia vissuto nella Spagna del XXI secolo, con una destra che dopo otto anni di governo Aznar si sente legittimata, con una sinistra «a la recherche du temps perdu» in piena crisi economica, e identità nazionali come quella catalana incendiate da una sentenza del Tribunale costituzionale contro un Estatut approvato da un referendum, difficilmente potrà capire l’equazione. La Roja ha vinto con l’appoggio massivo di tifosi appartenenti a un paese multiculturale, un ampio ventaglio sociologico coabitato da chi vuole che vinca la Roja per i giocatori che vi militano fino a chi esige che vinca la Spagna per la genetica di una razza e di una storia con caratteristiche epiche e divine. Restano fuori i disertori, quelli che hanno preferito andare al cinema o farsi qualche bicchiere durante la diretta, come segno di ribellione. Con un mosaico ideologico di tali proporzioni, è dura trovare parole in grado di raddrizzare la stortura di un inno ereditato dal franchismo. Forse la soluzione l’avrebbe un poeta surrealista, che utilizzando le leggi del movimento basate sulla scrittura automatica senza correttivi razionali e sull’impiego di immagini per esprimere le emozioni evitando di seguire un progetto logico, sarebbe il solo capace di far sì che i giocatori possano cantare l’inno evitando la sensazione di stare in un karaoke.