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 2010  luglio 16 Venerdì calendario

CONTI PUBBLICI IN ORDINE, CONSUMI IN CRESCITA, MONETA FORTE. DALLA NUOVA ZELANDA ALLA COREA DEL SUD ECCO I PAESI CHE NON FRENANO

L´economia va fin troppo bene, scoppia di salute, si surriscalda. Riparte l´inflazione. La moneta è più che solida. Il risparmio abbonda, i consumi pure, i conti dello Stato sono in ordine. La banca centrale deve alzare i tassi d´interesse per evitare che il boom sfugga di mano. Questi sono i titoli dei giornali che ogni mattina danno il polso della situazione. Nella maggioranza dei paesi sulla faccia della Terra. Sembrano appartenere a un altro pianeta: quello che cresce vigorosamente, ed è un mondo molto più ampio del «nostro». Dall´India fino alla Nuova Zelanda, passando per Taiwan, Corea del Sud e Australia, in tutto quel vasto arco di nazioni che va dall´Asia meridionale all´Estremo Oriente all´Oceania le banche centrali rialzano il costo del denaro perché i prezzi hanno ripreso a salire. Da quelle zone del mondo giunge l´eco di una formidabile ripresa.
 l´immagine speculare, rovesciata, di quel buco nero della crescita che è l´Eurozona, o della debolissima ripresa nell´America di Barack Obama. Abituato a considerarsi il centro del mondo, l´Occidente proietta il suo pessimismo su scala universale. Non si rende conto di essere ormai minoranza. Chi fa tendenza sono gli altri, il pianeta che cresce.
Lo sganciamento della parte più grossa della popolazione mondiale, partita su una traiettoria di sviluppo che ignora i nostri problemi, spiega le contraddizioni che si insinuano anche nel cuore dell´America.
L´altroieri la Federal Reserve ha dovuto correggere al ribasso le sue previsioni per la crescita Usa: a fine anno si aspetta al massimo un aumento del 3% del Pil (anziché il 3,5%). E´ del tutto insufficiente a riassorbire gli otto milioni di disoccupati che hanno perso il posto durante la recessione.
La banca centrale americana, la Fed, rivede addirittura lo spettro di una deflazione e avvisa: se non bastano i tassi d´interesse inchiodati a quota zero, noi siamo pronti a risfoderare un arsenale di interventi di emergenza, se l´economia torna a precipitare. Obama ieri è andato nel Michigan, vecchio Stato industriale, a perorare la causa di nuovi investimenti pubblici a sostegno della ripresa. Ma il Congresso di Washington trema di fronte a una montagna di deficit pubblico (10% del Pil) e lesina le risorse al presidente. Nel frattempo però la grande industria americana sta seduta su una montagna di cash: 1.800 miliardi di liquidità inutilizzata nelle tesorerie delle grandi imprese. Allora perché non ripartono le assunzioni? E come fanno a essere così ricche le aziende, se l´economia langue? La spiegazione è tutta in quell´altro pianeta. E´ da là che giungono i profitti del capitalismo Usa. Il colosso farmaceutico americano Pfizer calcola che le sue vendite di medicinali in Occidente nel prossimo quinquennio cresceranno appena del 3% ma in India e in Cina l´aumento del fatturato è tra il 15% e il 17%. Il numero uno della grande distribuzione, Wal-Mart, è tutto concentrato sull´espansione in India e Cina (dove ha aperto 60 ipermercati nuovi solo nel 2009). Yum Brands, proprietario di Kentucky Fried Chicken, ha aggiunto 1.800 nuovi fast-food in Estremo Oriente.
Quasi il 50% delle multinazionali americane riconoscono nei bilanci che le loro filiali asiatiche danno profitti molto superiori rispetto agli Stati Uniti e all´Europa.
Il pianeta che cresce ormai non è più solo Cindia. Una propaggine del boom asiatico ha messo radici profonde in Sudamerica. Uno degli indicatori più efficaci di un cambio nei rapporti di forze è il celebre Big Mac Index messo a punto da The Economist: paragona i poteri d´acquisto usando il prezzo di un hamburger da McDonald in diversi paesi. Ora per la prima volta il Big Mac a Sao Paulo e Rio de Janeiro costa più caro che a Manhattan. Il Brasile ha avuto una crescita del Pil del 9% nel primo trimestre. Il magazine Time ha scelto il suo presidente Luìs Inacio Lula da Silva come «il leader più influente del mondo». Lula, ormai vicino alla pensione, ha potuto permettersi di snobbare l´ultimo G20 di Toronto mandando un vice a rappresentarlo fra i Grandi. Questo Brasile non ha nessun bisogno di riconoscimenti, ha perso ogni complesso d´inferiorità, si considera a tutti gli effetti una superpotenza.
Perfino la marea nera nel Golfo del Messico lo aiuta, il blocco delle trivellazioni deciso da Obama ha aumentato la domanda di petrolio brasiliano. un paese che in otto anni di politiche moderatamente socialdemocratiche è riuscito perfino a fare arretrare i confini interni della miseria, il numero di brasiliani che vivono sotto la soglia della povertà è sceso da 50 a 30 milioni. L´unica cosa che preoccupa le autorità di Brasilia è che il boom rilancia l´inflazione, già salita al 4,2%. Ma la stabilità della moneta attira gli investimenti stranieri, e non sono solo capitali speculativi. Il giovane imprenditore Julio Vasconcellos, 29 anni, è ritornato a Sao Paulo dopo avere esordito nella Silicon Valley californiana, perché ha fiducia nel futuro del suo paese: «Le imprese straniere stanno cominciando a guardare al Brasile proprio come scommettevano sulla Cina negli anni Novanta».
I confini del pianeta che cresce sono così vasti da lambire il Medio Oriente. una sorta di beffa per l´Unione europea assistere al formidabile decollo della Turchia. Nel primo trimestre di quest´anno il Pil turco ha avuto un balzo dell´11,4%. la migliore performance mondiale subito dopo la Cina. Appena dieci anni fa Ankara aveva un deficit pubblico pari al 16% del Pil e l´inflazione galoppava al 72%, livelli da Repubblica di Weimar.
Fu in parte anche per motivi di fragilità economica - oltre ai più radicati sospetti di ordine politico e religioso - che l´Unione europea sbattè la porta in faccia alla richiesta di adesione turca. Oggi Ankara si prende una bella rivincita: il suo debito pubblico (al 49% del Pil) è sceso sotto il livello della Germania, il deficit sotto il 3% rispetta i criteri di Maastricht. Se entrasse adesso la Turchia sarebbe l´economia più «ortodossa» dell´Eurozona. Ma nel frattempo il baricentro dei suoi interessi si è spostato altrove: è il boom asiatico che ha consentito ad Ankara di sganciarsi dalla depressione europea. «Sui mercati finanziari - dice Husnu Ozyegin che è il più ricco banchiere turco - il costo delle assicurazioni contro la bancarotta (i credit default swaps) danno il debito pubblico del mio paese più solido di quello italiano. Se me lo avessero detto dieci anni fa avrei creduto a uno scherzo».
A riprova che il pianeta della crescita è ormai il più importante, il Fondo monetario internazionale ha dovuto rivedere le sue previsioni per la fine del 2010. Al rialzo, naturalmente. Anziché il 4,2% ora il Fmi stima che il Pil mondiale aumenterà del 4,6%.
La media ponderata fra il rallentamento dell´Occidente e l´accelerazione di «tutti gli altri», decreta che vincono loro. Al centro resta naturalmente la locomotiva cinese, la più grossa fra le economie emergenti. A giugno la Repubblica Popolare è stata protagonista di uno spettacolare rimbalzo delle sue esportazioni, salite del 44% in un mese. Ormai il ruolo trainante della Cina è percepito in ogni angolo del mondo. In Spagna i titoli del Tesoro hanno avuto una boccata d´ossigeno insperata quando è arrivata la notizia che la banca centrale cinese avrebbe comprato 400 milioni di euro di Bot decennali emessi da Madrid. Commenta così Mike Amey, gestore del grande fondo americano Pimco: «Per l´Eurozona un gesto di fiducia cinese è diventato fondamentale». La presidente dell´Argentina, Cristina Fernandez, è andata a Pechino a firmare un accordo di finanziamento per 10 miliardi di dollari: la Cina è di gran lunga il maggiore acquirente di soya argentina.
L´Asia intera, con i suoi «satelliti» economici Australia e Nuova Zelanda, secondo il Fmi entro cinque anni avrà aumentato del 50% il suo peso economico sul pianeta. Ed entro vent´anni al massimo, il Pil dei paesi asiatici (Giappone escluso) avrà superato quello del vecchio G7 che raggruppava i paesi di antica industrializzazione. Nuovi protagonisti si affacciano, oltre a quelli di cui già si parla da tempo. Dopo i Bric (Brasile Russia India Cina), i banchieri in cerca di acronimi ora parlano dei Civets, che in inglese vuol dire zibetti. Sono le iniziali di Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia e Sudafrica. Molti di questi paesi sono apparsi solo di recente sugli schermi radar degli investitori occidentali. L´attenzione che si conquistano è meritata. Si scopre con meraviglia che Indonesia e Colombia hanno dei deficit pubblici (rispettivamente del 2,1% e del 3,9% sul Pil) molto inferiori alla media europea. E´ un mondo alla rovescia. Ci piaccia o no, bisogna abituarsi in fretta.