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 2010  luglio 16 Venerdì calendario

FREE JAZZ. CINQUANT’ANNI FA ESPLOSE LA RIVOLUZIONE DI ORNETTE


Cinquant´anni fa, in una fredda giornata di dicembre del 1960, l´allora trentenne sassofonista Ornette Coleman (che sarà in tour in Italia a partire dal 21 luglio all´Arena del mare di Genova, ad Atina il 24, e poi il 10 agosto a Follonica e il 12 a Berchidda), riunì in studio altri sette musicisti, un ensemble strutturato come un doppio quartetto: due batterie, due contrabbassi e quattro fiati, dando loro istruzioni semplici ma perentorie. Avrebbero dovuto improvvisare in assoluta libertà, stabilendo solo alcuni stacchi periodici per scandire l´alternanza degli assolo, senza mai perdere il senso del collettivo flusso di coscienza. Gli altri, e tra questi c´erano astri nascenti come Don Cherry e Charlie Haden, o improvvisatori già celebri come Eric Dolphy e Freddie Hubbard, rispettarono alla lettera la consegna del "folle" Coleman, che aveva già scandalizzato il mondo jazzistico con le sue dissonanti armonie, con melodie oblique e uno stralunato lirismo che non si era mai sentito prima. E se per questo la sua innata capacità di scandalizzare si era espressa anche presentandosi in scena con un sax di plastica, eretico e sconsiderato sfregio alla sacralità strumentale della pratica musicale (poi negli anni a venire anche con un altrettanto eretico violino elettrificato e un´inedita ancia orientale).
Il risultato di questa session (in presa diretta, senza ritocchi e rifacimenti) fu un unico pezzo di quasi quaranta minuti, che il disco in vinile necessariamente interrompeva con una dissolvenza alla fine della facciata, e che risaliva appena girato il disco. Una follia, una cosa mai sentita prima. Ma fu una miccia, l´inizio di un terremoto, un gesto che come il battito della farfalla della teoria del caos, avrebbe generato un uragano.
Ornette decise di chiamare il disco Free jazz, a collective improvisation, e di mettere sulla copertina, come ovvia assonanza elettiva, un quadro di Jackson Pollock. Per lui era solo il titolo di un disco, ma in realtà aveva scritto un nuovo decisivo manifesto estetico, la nascita di un genere, anche se in questo caso il termine è improprio, diciamo un movimento, un approccio che avrebbe dominato nei vent´anni a seguire. Quel disco rimane il più controverso e provocatorio gesto creativo mai compiuto nel jazz, uno di quelli da cui non si può prescindere, pur amandolo o odiandolo, con cui bisogna inevitabilmente fare i conti. E così è stato. La parola libertà in quegli anni, pesava, era incandescente, portava dritto nel cuore di società del mondo occidentale ancora gravate da razzismo e vergognose diseguaglianze, era la parola, il verbo, il concetto a cui si aggrapparono vogliosi i movimenti per i diritti civili, la controcultura e il movimento giovanile che da lì a poco sarebbe esploso creando anelli di fuoco per tutto il decennio. Su questo la cultura afroamericana aveva ovviamente molto da dire. Quando i neri urlavano la parola "free", anche nell´assoluta astrattezza che si attribuiva alla musica strumentale, il riverbero semantico non poteva che essere esplosivo.
E il jazz era in prima linea, vibrava di furore, di potenza espressiva; due anni prima Sonny Rollins aveva intitolato un suo disco Freedom suite, Max Roach e Mingus traboccavano di idee e provocazioni culturali, Miles si ergeva come un principe del rinascimento afroamericano, John Coltrane stava anche lui procedendo a passi spediti verso un´utopica e delirante ricerca di libertà espressiva. E tutto fu definito da un disco, da una sfrontata e meravigliosa presa di coscienza che nessuno avrebbe più potuto dimenticare, da quel giorno freddo di dicembre del 1960.