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 2010  luglio 15 Giovedì calendario

LE RAGAZZE DI HERAT DIVENTANO FOTOREPORTER

Un artigiano che trasforma cocci di bottiglia in coppe di vetro, una nonna che accudisce il nipotino, un giovane che si droga, uomini che guardano la tv in una drogheria. Spaccati di vita quotidiana di un Afghanistan che non fa notizia, per lo più inaccessibile a chi arriva da fuori. Attimi catturati da un gruppo di studentesse dell’università di Herat iscritte al primo corso per fotoreporter. Un’iniziativa unica, resa possibile grazie all’intervento dell’università Cattolica di Milano e della Fondazione Fondiaria Sai, con la collaborazione dell’ambasciata e dell’Esercito italiano: una settimana di lezioni in aula sul linguaggio dei media e il reportage sociale, qualche ora di addestramento alla fotografia, e subito via: in strada. Niente burqa, solo l’hijab a coprire la testa, pantaloni e fotocamera in mano, le aspiranti reporter hanno iniziato a scandagliare Herat. Un atto già di per sé coraggioso in un Paese dove camminare liberamente per strada, andare al mercato o a casa di un’amica non accompagnate da un parente può risultare sconveniente. Proprio a Herat, un tempo considerata la città più moderna e liberale dell’Afghanistan (per l’influenza del vicino Iran sciita), il governatore Ismail Khan ha vietato alle donne di cantare in tv o andare dal parrucchiere. Alcune si sono date fuoco in piazza per protestare contro queste restrizioni. Molte trovano il carcere o addirittura il suicidio come unica via di scampo dalla vendetta della famiglia in caso di comportamenti «ribelli». Ora il coraggio di queste aspiranti reporter sembra indicare un’altra via d’uscita possibile.
«I giorni trascorsi ad Herat mi hanno convinta che un futuro di democrazia, sviluppo e pacificazione per l’Afghanistan possa trovare una possibilità di realizzazione soprattutto attraverso l’emancipazione delle donne, una preziosa risorsa nascosta ed emarginata che dobbiamo solo aiutare ad esprimersi. Ed è per questo che il nostro progetto si è concentrato sull’universo femminile», spiega Giulia Ligresti, presidente della Fondazione Fondiaria Sai, istituzione non profit impegnata anche in altri progetti umanitari in Paesi come India, Etiopia e Burkina Faso. E’ lei l’ideatrice di «Women to be» ( www.womentobe. giornale online realizzato dalle studentesse di Herat. Debutta oggi e, dopo un anno di pubblicazioni assistite, verrà affidato alle giornaliste afghane.
Lo sguardo di queste ragazze accompagna dentro le case degli afghani (in realtà al corso hanno partecipato anche una decina di ragazzi sennò il progetto non sarebbe stato autorizzato). Saghar, per esempio, si è concentrata sull’impatto della tv sulla sua gente: rifiutata dagli anziani (riprende un vecchio seduto su un marciapiede che si dice ignaro della popolare fiction tv reclamizzata alle sue spalle); considerata un mezzo di svago: i venditori di televisori per attirare clienti evitano le news e privilegiano le tv locali, per evitare di offendere la sensibilità dei potenziali acquirenti. L’incontro tra modernità e tradizione è investigato anche nei reportage sugli antichi mestieri. C’è spazio perfino per la poesia nelle fotografie di Shafea che ha documentato la giornata di un eroinomane, dal risveglio al lavoro di disegnatore di strada con tanto di pubblico fino al buco serale. Osserva Marco Lombardi, docente di sociologia e capo progetto delle iniziative in Afghanistan del Centro di Ateneo per la Solidarietà Internazionale (Cesi) dell’università Cattolica: «Nel bene e nel male emerge un Afghanistan più vicino di quello raccontato dai nostri media».
Alessandra Muglia