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 2010  luglio 15 Giovedì calendario

BABY SOLDATI ALLA GUERRA DI BELFAST

L’esplosione arriva con una forza selvaggia, probabilmente dall’angolo tra Ardoyne e Crumlin road perché il fumo nero si alza proprio davanti all’ufficio postale e si mischia alla pioggia pesante che riempie il cielo e le strade di Belfast. La macchina salta per aria come in un videogioco, i vetri schizzano in mezzo alle pozzanghere, mentre uomini e donne corrono lontano, senza gridare, perdendosi dietro recinti bassi di case popolari sempre uguali, con i mattoni rossi e i tetti spioventi. Via, bisogna andarsene, ma in che direzione? Jerry Oates, un signore enorme, con lineamenti da pugile e la testa calva, grida: «Venga, mi segua». Un riparo in un cortile che forse è un orto, per riprendere il fiato e cancellare l’eco dell’onda d’urto che batte sui timpani, mentre il cattivo odore si incolla alla paura. Fa freddo. Lentamente torna il silenzio e il respiro si fa regolare.
E’ il terzo giorno di disordini in città, la notte è il momento più duro e la carcassa della Ford bianca aperta in due come una scatola di sardine è l’ultimo scheletro di una ribellione bambina, cattiva, imprevedibile in queste forme e in queste dimensioni. «I lealisti non dovevano sfidare il cuore arrabbiato delle nuove generazioni», sentenzia Oates.
Ma la polizia è convinta che non sia la solita giostra aggressiva innescata dalla parata orangista. Di scontri ce n’erano stati anche negli anni passati. Così mai. C’è un piccolo mondo che è sceso in strada, diciottenni che si sono portato dietro fratelli di otto, dieci anni. Un’assurda intifada nordirlandese fuori dal tempo, senza un perché visibile, una furia che attraversa le generazioni. «Hanno usato i bambini come scudi umani», sostengono alcuni testimoni oculari, ma Matt Beggott, responsabile della sicurezza nell’Irlanda del Nord, racconta un’altra storia, complicata, meno cinematografica, più pericolosa: «Qualcuno li manovra. Quando abbiamo visto che i bambini ci tiravano i sassi ci si è gelato il sangue nelle vene». Non erano scudi, erano soldati. Attaccarli era impossibile.
Com’è cominciato lo scontro? E’ il 12 luglio e i lealisti sfilano come se il mondo si fosse fermato al 1690, con la vittoria di Guglielmo d’Orange sull’esercito cattolico di Giacomo II, e allora marciano per le strade con i loro simboli e le loro bandiere. Dicono che è il momento più alto del loro programma culturale, sono pieni di medaglie e con i tamburi pretendono di passare in mezzo a ogni quartiere di una città ancora divisa per zone. Da una parte loro, lealisti-protestanti, dall’altra i nazionalisti-cattolici. Si fa finta di niente per dodici mesi, poi il 12 luglio si ricomincia, nemici come prima. Non è bastata la sentenza sul Bloody Sunday a calmare le frange dissidenti.
I ragazzi di Ardoyne considerano la parata una provocazione. La odiano. I loro padri e le loro madri si sono presentati lungo i marciapiedi con cartelli che dicevano: «Siamo residenti, non dissidenti». Elena Millighan, una donna di 36 anni con occhi piccoli e grigi, spinge il figlio sulle scale. «Belfast non è il paradiso, le opportunità si contano sulle dita di una mano, perché i ragazzi devono sopportare anche questa umiliazione?». Umiliazione. Il vicino di casa le sorride rassegnato. «Passano di qui dieci minuti l’anno, si può anche sopportare, no?». Lei scuote la testa.
Da lunedì sera, quando la rivolta è partita, sono finiti all’ospedale 82 agenti. Gli hanno scaricato addosso di tutto e martedì notte, per la prima volta, contro di loro hanno sparato anche sei colpi di pistola. La tensione resta alta, anche se le forze dell’ordine giurano che il peggio è passato. I ragazzi feriti sono stati 30. Nessuno è grave.
Le Land Rover blindate lungo le strade non sono bastate a scoraggiare i ribelli. Sono arrivati come tori infuriati, con i volti mascherati, i cappucci in testa, hanno circondato i blindati, li hanno presi a colpi di bastone e di pietra come black bloc al G8, hanno lanciato bottiglie di birra trasformate in bombe molotov. I poliziotti hanno usato gli idranti e David Cameron, alla Camera dei Comuni, li ha definiti eroici: «Quello che è successo a Belfast è inaccettabile. La polizia ha reagito con coraggio e con misura». Ora vuole l’elenco dei rivoltosi.
Matt Baggott si mangia le parole, il labbro superiore gli trema. «Vogliamo capire chi c’è dietro. Chi li manda, i bambini, in mezzo alla strada? Dove sono i loro genitori?». Giura che i colpevoli non avranno pace. «Ovunque siano non potranno mai più dormire sonni tranquilli». Il suo vice, Alistair Finaly, punta il dito sul primo ministro Peter Robinson e sul suo braccio destro, Martin McGuinness, deputato del Sinn Fein: «Perché non hanno condannato subito gli scontri? Di chi è il compito di assicurare il dialogo e la pace?». Era sconvolto. Poche ore prima aveva raccolto da terra una collega colpita da un mattone alla testa. «Senza casco sarebbe morta».
McGuinness ha replicato che la polemica è senza senso e che gli scontri di questi giorni sono «evidentemente da condannare senza distinguo». In mezzo alla strada, tra Ardoyne e Crumlin, Padre Gary Donegan prova a mediare. Lo sguardo fissa un punto incastrato nel nulla. «La parata è diventata la Disneyland dei ribelli. Quelli marciano, questi tirano sassi. E’ tutto senza senso». Un tuono spacca il pomeriggio, gli spazzini rimuovono cassoni e lamiere usate come armi, un carro attrezzi impila le carcasse di tre auto e da lontano, per un attimo, sembra di nuovo un mondo ordinato.