Alberto Negri, Il Sole-24 Ore 15/7/2010;, 15 luglio 2010
A TEHERAN LA RIVOLTA DEL BAZAR
La crisi della Bazar Economy comincia nei quartieri commerciali di Teheran e arriva fino a Dubai,sull’altra sponda del Golfo, dove pasdaran e ayatollah tengono la loro cassaforte offshore, negli ultimi tempi sempre meno sicura e sigillata dopo il congelamento di 40 conti bancari della nomenklatura iraniana deciso dalla Banca centrale degli Emirati. Per la seconda volta da quando è salito alla presidenza, Ahmadinejad ha dovuto affrontare uno sciopero del bazar, l’ultimo - ancora in corso - è il più lungo dai tempi della rivoluzione del ’79, quando i commercianti della capitale, appoggiando l’imam Khomeini a difesa degli interessi dell’economia tradizionale, contribuirono alla caduta dello shah.
Anche se il governo ha fatto marcia indietro sull’aumento delle tasse e dell’Iva dal 70% si è scesi a un più modesto 15%, per di più rateizzabile - il bazar continua a protestare e nel labirinto di strade, arcate e vicoli, molte saracinesche sono rimaste abbassate, lasciando evaporare nel silenzio della serrata le scie di odori e profumi che di solito accompagnano una giornata di traffici e contrattazioni. Il governo, per mascherare le conseguenze dello sciopero, domenica ha proclamato improvvisamente una giornata di festività, giustificandola con l’ondata di caldo e la necessità di risparmi energetici.
La facciata pittoresca del bazar, con le vie dei tappeti, del rame, dell’oro,delle spezie,del cuoio, non deve trarre in inganno: anche in questi tempi di globalizzazione resta il cuore dell’economia, il luogo dove vengono stabiliti i prezzi dei beni di prima necessità, il vero cambio del rial contro il dollaro e l’euro, dove si prestano i soldi che non si trovano nelle banche statali e si fissano i tassi di credito. Percepire la riba,
cioè gli interessi sul capitale, è proibito dalla legge islamica ma rimane un’attività largamente praticata sottobanco: oggi i tassi passivi, persino nelle banche ufficiali che aggirano i divieti, non sono inferiori al 20 per cento.
Il bazar è mercato, fabbrica, banca e quartiere delle corporazioni. Qui si possono usare le carte di credito, inesistenti nel resto del paese: una miriade di bazarì persiani possiede un conto negli Emirati, utilizzato ogni giorno per appoggiare i loro commerci a Visa, America Express e Master Card. Dubai, dove sono registrate 7mila società iraniane, da decenni è un vortice d’affari ma gli ultimi dati indicano che il commercio con gli Emirati è crollato del 20%: colpa delle sanzioni, che restringono le attività, ma anche della crisi iraniana. La Banca centrale di Teheran è allarmata: negli ultimi tempi un assegno su otto sta finendo in protesto, un segnale di affanno per un’economia che conta per il 70% sulle entrate petrolifere.
Oltre 300mila persone ruotano intorno al bazar e ai suoi mercanti - i bazarì - schierati di solito con la parte più conservatrice del clero: la rivoluzione li ha premiati assegnando loro funzioni chiave nelle gerarchie politiche e nei consigli di amministrazione delle bonyad, le fondazioni, le corporation islamiche che dominano l’80% dell’economia, sono esentasse e di solito rispondono direttamente alla Guida suprema, Alì Khamenei. Ma con Ahmadinejad questo stretto rapporto tra bazar e potere si è incrinato per l’ascesa nei posti importanti dei pasdaran, le Guardie della rivoluzione, che oggi controllano 700 società e le industrie strategiche del paese.
La protesta fiscale del bazar sta sabotando il piano economico di Ahmadinejad, intenzionato ad aumentare le tasse e a ridurre, se non eliminare, i sussidi statali erogati per calmierare i prezzi dei prodotti energetici, del pane, dell’acqua, dell’elettricità, dei trasporti: un fardello che pesa sul bilancio pubblico per 100 miliardi di dollari l’anno. Un automobilista, per esempio, ha diritto ogni mese a 60 litri di benzina al prezzo sovvenzionato di mille rial, 0,80 euro al litro. Questo welfare state all’iraniana è diventato insostenibile ma abolirlo potrebbe anche significare l’esplosione sociale in un paese con il 20% di disoccupati e un’inflazione che supera allegramente di almeno una decina di punti il tasso ufficiale del 9,9 per cento. L’Iran, si è sempre detto, è un paese che grazie alle entrate petrolifere può essere amministrato male e andare avanti lo stesso: ma Ahmadinejad con la crisi economica e le sanzioni si è accorto che non più così. E la sua promessa «di portare il petrolio sulla tavola degli iraniani», slogan della campagna elettorale, appare sempre più evanescente.