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 2010  luglio 15 Giovedì calendario

L’UOMO UCCIDE NON COLPA DEL MASCHILISMO

Gira e rigira, tornano sempre al fem­minismo. Per spiegare la catena funesta di delitti contro le donne, uno al giorno, Dacia Maraini sul Corsera , Michela Mar­zano su la Repubblica e un esercito di donne pubblicanti sui quotidiani d’im­pegno, ricorrono alla solita vecchiotta spiegazione, diversamente modulata: è il maschio spossessato che non sopporta l’emancipazione femminile e allora torna dispotico, cruen­to e primitivo.
La tesi è facile, ideologica­mente comoda per loro, ma non convince. Perchè non considera tre o quattro cose. La prima obiezione elementa­re è che la società era infinita­mente più maschilista negli anni Settanta quando il fem­minismo era più virulento, mentre delitti di questo gene­re con questa impressionan­te sequenza, si vedono invece quarant’anni dopo, quando molte di quelle rivendicazio­ni che all’epoca sconcertava­no, sono diventate ormai oriz­zonte comune. La seconda è che non si considera affatto, per ovvie ragioni ideologiche tipiche del politically correct, che un’influenza di questa brutalizzazione dei rapporti semmai è venuta dalla pre­senza nella nostra società di immigrati provenienti da mondi che non sono affatto portati a riconoscere diritti al­le donne; la forza dell’emula­zione non è da trascurare e non sono pochi i casi di violen­ze alle donne da parte di im­migrati, anche se non sta be­ne dirlo.
Ma la terza e più importan­t­e considerazione è che l’ucci­sione della donna, nella gran parte dei casi, non è l’afferm­a­zione di un predominio ma di una disperazione, non è il se­gno della podestà maschile ma della sua impotenza, non indica possesso ma abbando­no, non è maschilismo ma ter­rore della solitudine.
Se dovessi tentare una for­mula riassuntiva per spiegare questa catena di delitti direi: è la sindrome del bambino per­duto che si vendica perchè crolla il suo mondo e la sua nu­trice. Il femminismo aggressi­vo ed espansivo dei nostri an­ni, unito alla regressione an­che numerica dei maschi e perfino al destino genetico di scomparsa e di tramonto che viene copiosamente descrit­to attraverso quelle X e quelle Y inquietanti, ha intimidito i maschi li ha portati alla fuga, sulla difensiva, col timore di competere o in cerca di surro­gati, come l’omosessualità o la transessualità. Ma li ha por­tati soprattutto a restar bam­bini, perchè avvertono il peso della fragilità e della dipen­denza.
Il rapporto assoluto con la donna, che è poi alla base di questi delitti, non nasce dalla mancata tolleranza dell’ emancipazione femminile, se non in apparenza; nasce piuttosto dal sentirsi bambini abbandonati da madri consi­derate crudeli agli occhi pato­logici dei loro partner-figli. Non è in discussione il ruolo della donna, ma al contrario, è una conseguenza del ruolo accresciuto della donna che produce questa dipendenza tossica fino al crimine, del bambino perduto. Abituati da una società fondata sulla centralità del desiderio e sul­la permanenza del gioco in­fantile, a non dover rinuncia­re a niente, non possiamo ac­cettare l’idea che chi ci tiene al mondo possa andar via e ab­bandonarci. Non è tanto il dramma della gelosia, e tanto­meno il delitto d’onore a risali­re dai meandri della nostra antica matrice, quanto que­sto trovarsi soli in mare aper­to, dopo aver affidato alla don­na il ruolo di barca, di skipper e di bussola. Anche quando il rapporto formale era ancora segnato dalla finzione dei ruo­li, lui masculo sovrano, lei femmina concupita e succu­ba, in realtà il rapporto era in­vertito. Perchè quel che se­gna il dominio non è il grido di possesso o la forza muscola­re, che è solo scena e cerimo­nia; ma il grado di dipenden­za. Chi più dipende dall’altro più è subordinato all’altro.
Arrivo perciò a dire che si è trattato forse di una rivolta de­gli schiavi, i maschi, a cui è sta­to tolto il pane della loro vita. quella la vera debolezza, far dipendere la propria vita da un’altra persona; impensabi­le per un vir delle società ma­schiliste e patriarcali. Il delit­to d’onore o passionale del tempo remoto era la punizio­ne per aver infranto un ordi­ne, per una ribellione al pote­re maschile, per rimediare al­la vergogna, ad una brutta fi­gura sociale. Qui il movente appare un altro, non è la consi­derazione del giudizio altrui o l’esigenza estrema di ribadi­re la gerarchia tra il maschio e la femmina, non è la punizio­ne p­er aver infranto una sovra­nità indiscutibile.
Ma è l’estre­ma fragilità di chi dice: se te ne vai tu è finita la mia vita, ti uccido e mi uccido. Non sotto­valutate che solitamente il progetto di uccidere l’ex part­ner si accompagna al deside­rio di uccidersi. Perchè non si sopporta l’idea del carcere e del vituperio generale, sì, è ve­ro. Ma soprattutto perchè la mia vita senza di te non ha più senso, muoia Sansone con la filistea.
Questo non è maschilismo ma infantilismo tragico, deli­rio puerile, la ferocia dei debo­li. Il re maschio per antono­masia non dipende dalla sua donna, la punisce magari ma poi continua la sua vita. Qui non è così, perchè non si trat­ta di vir ma di puer. Il femmini­smo è il comodo alibi, il nuo­vo luogo comune o codice di sicurezza per rassicurare le pi­gr­izie mentali e gli schemi ide­ologici dei nostri tardo-pro­gressisti. E così vien fuori il maschio leonino che ruggi­sce e sbrana per comandare. O come, scrive la Marzano, «il declino dell’impero patriarca­le ». Una trama buona per vec­chi film o per cartoni animati, non per la realtà presente, per­vasa da nichilismo e solitudi­ne, capricci e disperazione, in­sicurezza e rigurgiti d’infan­zia. Perchè mi hai abbando­nato? il grido che risuona nelle metropoli, nelle perife­rie e nei paesi e qui parlano an­cora di maschilismo.