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 2010  luglio 15 Giovedì calendario

VIA COL VENTO


La sua testa è caduta nel momento esatto in cui Silvio Berlusconi gliel’ha ripetuto per l’ennesima volta: «Posso pure continuare a difenderti dalle accuse. Ma il posto da sottosegretario lo devi lasciare». Nicola Cosentino ha preso atto. E si è dimesso dal governo non senza opporre quelle resistenze che gli hanno consentito di conservare la guida del Pdl campano. La verità è che, insieme al Cavaliere, l’ex sottosegretario casalese ha sperimentato la geometrica potenza di un inedito «fronte della legalità» che s’avanza nel centrodestra in queste notti di mezza estate.

Perché c’è tanto, tantissimo, "non detto" nella torbida faccenda che ha portato Cosentino a rimettere il suo mandato governativo di sottosegretario all’Economia nelle mani di colui che è stato costretto a chiederglielo indietro, e cioè Silvio Berlusconi. Perché non si tratta solo dell’ennesimo duello tra il presidente del Consiglio e Gianfranco Fini, che ieri mattina aveva benedetto l’accelerazione sulla mozione di sfiducia nei confronti del segretario e, di conseguenza, anche il materializzarsi delle sue dimissioni. C’è anche dell’altro.
L’ultimatum del governatore campano Stefano Caldoro, una delle vittime illustri della P3, che aveva manifestato privatamente al premier la sua intenzione di «mollare tutto» (con ricadute pesantissime per l’immagine della maggioranza) se il premier stesso non avesse costretto il sottosegretario casalese a un passo indietro.

L’irritazione di Giulio Tremonti, il superministro dell’Economia che da mesi chiedeva che Cosentino lasciasse gli uffici del dicastero di via XX settembre. Il ruolo della Lega Nord, intenzionata a giocare sull’inchiesta della P3 - con tutti i distinguo del caso - la stessa partita giocata anni addietro con Tangentopoli (tra l’altro, il presunto coinvolgimento del grande nemico Roberto Formigoni nel tritacarne appare come un incentivo a posizionarsi dalla parte dei Pm).

Per non parlare delle nuove leve del Pdl acqua e sapone, che hanno il volto di Mara Carfagna o quello di Nunzia De Girolamo (dietro di loro, però, si agitano altri big a favore del "rinnovamento"), da subito schierate a favore delle dimissioni di Cosentino. Oltre, ovviamente, a Gianfranco Fini, che attraverso Italo Bocchino ha condotto in prima persona (e vinto) la partita sull’uscita di «Don Nicola» dalla scena governativa.
Visti dall’alto, sembrano quasi tutti nemici tra loro. Sembrano. I leghisti e Fini, Tremonti e i giovani rinnovatori del Pdl. In realtà, sono tutti a vario titolo interessati all’eredità di Silvio, il Capo che - stando all’informativa dei Carabinieri allegata agli atti dell’indagine - veniva evocato dalla cricca di pitreista con il nome di «Cesare».

La manovra d’accerchiamento nei confronti di Cosentino (e di Berlusconi) è stata molto più grande di quella che sembra. Tanto che, ai più alti livelli della maggioranza, c’è anche qualche apocalittico convinto che «la resa di Nicola comincia tanto ad assomigliare all’arresto di Mario Chiesa». All’evento, insomma, che nel febbraio del 1992 diede il «la» al crollo della Prima Repubblica.

Forse la preoccupazione dei berlusconiani apocalittici è esagerata. Forse. Ma è un fatto acclarato che, nel concordare l’uscita di scena di Cosentino col diretto interessato, Berlusconi abbia scientificamente scelto di tenere un profilo bassissimo. Della serie "i nemici sono solo Fini e la sinistra, per ora gli altri congiurati lasciamoli perdere". Lui, «Nicola», ha retto il gioco. E, uscendo da Palazzo Chigi, si è definito un «perseguitato», la vittima designata del «solito circo mediatico, da L’espresso a Repubblica». Quindi, obbedendo alle regole d’ingaggio concordate col Cavaliere, ha attaccato il presidente della Camera («Vuole solo il potere nel Pdl») e il suo fedelissimo Bocchino. In cambio, come da copione, Berlusconi ha confermato la sua difesa d’ufficio («Cosentino è totalmente estraneo alle accuse che gli sono state rivolte») e ha benedetto la sua permanenza alla guida del Pdl campano («Continuerà a svolgere il suo importante ruolo nel partito»).

Al canovaccio recitato dalla premiata coppia Berlusconi-Cosentino, Gianfranco Fini ha opposto il suo, di copione. «Le dimissioni erano indispensabili e doverose», ha scandito il presidente della Camera. «Quello che dice mi lascia completamente indifferente», ha poi aggiunto replicando alla sciabolata dell’ormai ex sottosegretario. Tutto questo prima di riunire i suoi più stretti collaboratori ai piani alti di Montecitorio e commentare: «La reazione scomposta di Cosentino nel commentare le sue dimissioni è l’esatta dimostrazione di dove sta la coerenza sulla questione della legalità». La legalità, appunto. La bandiera del nuovo, eterogeneo, «fronte» che s’avanza dentro la maggioranza. Fini e i suoi, ovviamente. Bossi e Maroni, il titolare del Viminale che si gode i suoi successi sul fronte della lotta alla criminalità organizzata. Quindi Tremonti. Poi le nuove leve del Pdl. Hanno sempre marciato separati. Ma, stavolta, hanno colpito uniti. Hanno affondato «Nicola», per ora. Ma l’obiettivo finale è «Cesare». Pardon, «Silvio».