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 2010  luglio 15 Giovedì calendario

ARGOMENTI DI: UMBERTO LEVRA, "L’ALTRO VOLTO DI TORINO RISORGIMENTALE", COMITATO DI TORINO DELL’ISTITUTO PER LA STORIA DEL RISORGIMENTO ITALIANO, TORINO 1988


Introduzione sulla storiografia oleografica del Risorgimento. Completamente ignorate le classi popolari, troppo intente alla sopravvivenza per potersi occupare di politica

• Capitolo I Il vicolo della Casa Gambarana (prostituzione, disperati che cercano lavoro)

«... [Torino] una città in cui tutti - nella più misera catapecchia come a Palazzo Reale - si alzavano e si coricavano in genere assai presto: i mercati alimentari iniziavano le vendite al levare del sole e chiudevano alle 8 del mattino in primavera ed estate, alle 10 nelle altre stagioni; i funerali si svolgevano tra le 5 e le 6.30 e comunque prima delle 8; le messe domenicali con predica erano alle 5 o alle 6; l’impiccagione attirava sempre una gran folla di spettatori alle 5 del mattino; le corse dei cavalli si disputavano tra le 6 e le 7; nell’Ospedale di San Giovanni alle 4,15 (alle 5,30 d’inverno) oò sacerdote giungeva nelle corsie con i sacramenti, il pranzo dei ricoverati era alle 10 e la cena alle 17; di lì a qualche anno Carlo Alberto fisserà le udienze particolari alle 6».

• Capitolo II La vorticosa crescita demografica della città

«In realtà la città attirava non tanto manodopera industriale, quanto piuttosto numerosi muratori stagionali, artigiani, addetti ai trasporti, venditori ambulanti, domestici e soprattutto masse di contadini proletarizzati le cui prospettive di lavoro stavano entro i limiti di un’occupazione precaria, di impieghi saltuari qua e là e del ricorso più o meno continuativo alla carità pubblica e alla mendicità. Ad essi vanno aggiunti tutti coloro che dalle altre province o regioni o stati esteri gravitavano sulla capitale per le funzioni da essa espletate: quindi nobili, funzionari, militari, studenti, e così via». Insomma, a Torino negli anni Trenta, linee di tendenza non dissimili a quelle del Settecento «quando la città aveva rappresentato il centro di attrazione di un flusso eterogeneo, continuo ma non rilevante, di persone che ivi ritenevano - anche solo per un breve periodo - di poter soddisfare i propri bisogni elementari, che la campagna non poteva più appagare, perché i viveri costavano meno, grazie alla politica di controllo dei prezzi, perché la pressione fiscale era minore, perché nettamente superiore era la quantità e la qualità della beneficenza erogata. A questo tipo di immigrazione se ne aggiungeva un’altra, ben diversa: quella stimolata dall’importanza e prestigio crescenti della capitale, per la complessità di funzioni ivi concentrate dal processo di modernizzazione attraversato dallo Stato sabaudo, per la volontà del sovrano di render Torino il centro di un’amministrazione via via più ricca di funzionari, di una corte che attirava e controllava i nobili, di un’economia in sviluppo» [48-49]

«Eccedenza di forza lavoro nelle campagne non assorbita ancora da un’espansione delle attività maifatturiere» [49]

«Per un verso, i processi in atto di frazionamento della proprietà, soprattutto nella zona collinare, davano luogo a un fenomeno di mobilità sociale ascendente, per l’accesso alla proprietà coltivatrice di gruppi di contadini già dipendenti e ora arricchitisi [...] per un altro verso, nella bassa pianura irrigua, il fatto che la grande affittanza [...] continuasse ad estendersi [...] faceva sì che aumentasse notevolmente l’impiego, accanto ai salariati fissi, di braccianrti giornalieri, cioè di una manodopera fluttuante, assorbita senza vincoli di stabilità sul fondo - perciò meglio adatta al variare delle esigenze produttive -, libera da legami, facilmente espulsa dalle campagne nei momenti di crisi, caratterizzata in un primo tempo da una mobilità sociale discendente e, nella fase successiva, da una mobilità delle persone sul territorio, secondo le possibilità occupazionali offerte» [49]

Da G. Melchiori, "Osservazioni igieniche sulla trattura della seta in Novi" (Voghera, Tip. C. Giani, 1845, pag. 37: «L’abitazione del giornaliero ben rare volte è piacevole: oltre la cattiva costruzione della sua casa, v’ha la sporcizia, il sudiciume, fedele compagno della miseria, che la rende peggiore. I nostri operai tutto il giorno lasciano aperto il loro abituro, né chiudono le porte, e non vi entrano che la sera, non avendo persona da lasciarvi in custodia [...] Se vi entrate la sera, trovate il letto ancora scombujato, le urine nei pitali, i vasellami ricolmi d’acqua del giorno avanti, quelli che servirono a confezionar la cena ed il desinar pur anco lordi di broda e di untume; ovunque vi spira un tanfo soffocante. Nella stessa stanza, che serve ancora di cucina, trovansi più letti colle lenzuola sordide, perché manca il tempo per lavarle; i piumaccioli delle culle dei bambini, ed i pannicelli imbrattati di urine e di altro. Il suolo polveroso, coperto d’immondezze, e per sovrappiù una miriade di pulci e di cimici. Apprestata la cena, la donna alla meglio rifà il letto, e poi si chiude là entro tutta la famiglia per rifocillarsi delle fatiche sostenute». Il mangiare consiste poi in «cibi inconditi, che per lo più si riducono a pane, polenta, a qualche coppa di legumi che accattano da rivendugliole, a frutta della non migliore qualità, ad erbaggi crudi, a poca carne salata, a formaggio di poco costo ecc.». Il tutto «con la premura» dovuta al lavoro [50]

«Abitudine diffusa a cambiare spesso manifattura [...] alla ricerca di aumenti minimi del salario e nel tentativo di sfuggire alla restituzione dei debiti contratti, sotto forma di anticipazioni, con i datori di lavoro nei momenti di disoccupazione, data l’esiguità dei salari che permettevano la sola sopravvivenza fisica e non consentivano risparmi a cui attingere nei frequenti periodi di interruzione del lavoro». Petitti: «Molti [...] denunciano la miseria flagrante degli operai d’ogni età, specialmente de’ setaiuoli, non pochi de’ quali si danno a vagare di fabbrica in fabbrica. Accusasi per causa di tale inconveniente anche fra noi l’abuso delle anticipazioni, le quali, se in pochi casi soccorrono a’ reali bisogni, in molti favoriscono solo lo spreco della somma anticipata, e muovono al vagabondaggio per sottrarsi alle restituzioni cui dovrebbero sottostare mercé di rateate ritenzioni». Inconvenienti che esistono qui come in Francia. [51]

La città come «attivo catalizzatore del pauperismo rurale [...] la sua crescita era alimentata dalle stesse funzioni burocratiche, di servizi, militari, culturali, di distribuzione ecc. [...] la forza di attrazione della città è molto spesso superiore alle possibilità di occupazione che offre [...] di qui il formarsi di sacche di abitanti che sono comunque di troppo [...]» [51-52]

• Capitolo III Il rapporto tra popolazione e sussistenza: la morte tira le somme [53]

«La fame dei miserabili, innanzi tutto, endemica e non solo in occasioni delle frequenti, gravi carestie o delle crisi produttive che si susseguivano. Nelle campagne peraltro si stava anche peggio, con i 22 centesimi al giorno di cui, in media, disponeva un servo di campagna nel Saluzzese nel 1835, o i 20 centesimi dello schiavendaio (schiavendaro) della Lomellina nel 1846, con giornate lavorative che duravano - compresi gli intervalli - da 12 a 16 ore secondo le stagioni. Nel Vercellese, sulla base dei calcoli del Pugliese, mancavano ai manovali fissi (che erano la maggioranza dei giornalieri) un terzo del salario necessario per procurarsi il puro indispensabile» [54]

«Chi percorra le campagne lontane dai grandi centri di popolazione sarà colpito dall’aspetto dei villici: le vedrà popolate da uomini, donne e fanciulli, magri, gialli, spossati, estenuati non già dal lavoro, ma da un regolato digiuno» (Balbio Piovera sulla Gazzetta Agraria del 1847, citato dal Prato)

«[...] Si continuavano a vendere i capelli femminili, in città ancora si praticava l’acquisto di rimasugli, spesso avariati, delle mense aristocratiche. La polenta era, in pianura, in collina, in montagna, il cibo spesso esclusivo, al punto che i governanti erano ben attenti - in anni di cattivo raccolto - a ridurre subito i relativi dati di entrata» [54-55]

«Preso atto "che in alcune Provincie le fave servono di quasi esclusivo alimento agli abitanti i meno facoltosi» la M.S. dispone «sul dazio di questa derrata una temporaria proporzionata diminuzione» [55]

«E inoltre: castagne, patate, erbaggi mal cotti e quasi senza sale; latte, poco formaggio, acqua per bevanda, di rado vinello annacquato, la carne consumata così poche volte nella vita che tali occasioni divenivano talvolta oggetto di racconti favolosi dei vecchi ai giovani, la sera nelle stalle. Naturalmente, da questo orizzonte mentale la politica - grande o piccola che fosse - era assente. Come scriveva nel 1833 l’Eandi, "in regola ordinaria gli uomini della campagna e gli artieri non si occupano di affari politici, e ne sono quasi al buio» [55]

Descrizione dell’Eandi degli abitandi delle medie valli e della pianura «per lo più di statura meno che mediocre, con poca espressione nelle loro fattezze, di forme irregolari e di temperamenti cachetici» eccetera vedi il resto il [56-57]

«I pregiudizi contro la vaccinazione anti-vaiolosa erano ben radicati» [58]

La pellagra «non v’ha esempio che abbia molestate persone agiate e ben nutrite» [Petitti, 59]

Malattie nel comune di Tigliole [59]

«Nel 1834 Cesare Alfieri, l’ascoltato consigliere di Carlo Alberto, annotava con crudezza i livelli di sussistenza quasi impossibili nelle campagne: "Le maximum de la valeur d’une journée de travail dans les campagnes peut être estimer à un franc pour les hommes, et à soixante centimes pour les femmes; ce qui ferait quattrevingt centimes, termes moyens; Les salaires baissent au-dessous de ce taux, en proportion de la décroissance des jours, jusqu’à soixante-dix centimes pour les hommes, et cessent totalment pendant les troix mois de l’hivers [...]. Le minimun des frais de nourriture peut être estimer à trente centimes par jour, en supposant, ce qui est réellement, que l’on ne fait point usage de viande, ni même de vin habituellement. Des journaliers qui vivraient à moins succomberaient bientot de fatigue e d’épuisement. Cela donné, il resterait cinquante centimes pour pourvoir à tout les autres besoins de la vie et à l’éducation de la famille; mais ci l’on considère la cessation des gages pendant un quart de l’année environ et pendant les jours de fêtes, on sera bien facilement convaincu que cette classe laborieuse, tout en vivant de privations, ce voit sans cesse exposée à une misere absolue". Riferendonsi alla seconda metà degli anni Quaranta il Massino-Turina calcolava che nello Stato Sardo vi fossero circa 450 mila indigenti - incapaci cioè di vivere con i propri mezzi e del proprio lavoro - cioè 9 ogni 100 abitanti. Stimava poi che essi fossero 8 su 100 in Inghilterra, 25 su 100 in Irlanda, 4 su 100 in Francia, 7 su 100 in Australia, 4 su 100 in Spagna e Portogallo, 12 su 100 nei Paesi Bassi e Belgio, 10 su 100 nelle città di Roma, ben 50 su 100 a Venezia... [a Torino] 3/4 dei poveri e mendicanti registrati restavano fuori dalle istituzioni d’assistenza» [61]

Descrizione dei coscritti: «nel 1828-37, il nucleo più numeroso, il 25%, dei giovani abili di Torino aveva una statura compresa tra i 154 e i 162 centimetri - per tutto il Regno la percentuale saliva al 38% - mentre l’altezza di un altro 18% di coscritti torinesi stava fra i 141 e i 154 centimetri [...] statura minima prescritta per l’arruolamento 154 centimetri». Catalogo dei riformati [62]

Dati sulla mortalità infantile in [63]

«A Torino non giungevano dunque inattese le denunce del "mal essere", come allora si diceva, che - negli anni Trenta e soprattutto Quaranta e ancora Cinquanta - uscivano da molte penne. Sotto gli occhi di tutti erano la decadenza fisica dei ceti inferiori, la loro bruttezza aggiunta alla denutrizione, alla bassa statura, alle deformità, a una debolezza organiza diffusa; l’igiene personale e delle abitazioni del tutto trascurata (la pulizia era ancora un lusso accessibile solo a borghesi e aristocratici); il largo consumo di vino all’osteria - ne esistevano, di vario genere, quasi 500 - con ubriachezza ed etilismo diffusi; la forsennata passione per il gioco del lotto; gli sfibranti orari di lavoro, protratti di norma dall’alba a dopo il tramonto (mediamente da 12 a 14 ore) e alternati a lunghi periodi di disoccupazione passati tra le bettole, l’accatonaggio, l"errare intorno alle fabbriche ed offrire invano le loro braccia chiedendo a retribuzione d’opera la più bassa mercede"» [63-64]

Duemila prostitute negli anni Cinquanta [64]

Cronologia delle epidemie nel Regno di Sardegna [65-seg.]

«Quelle nutrici che negli ospedali e in una città flagellata dal vaiolo ponevano tutta la cura possibile per asportare dai bambini il vaccino innestato affinché non avesse effetto» [71]

Lecouturier nel 1848: «Un bastardo ogni tre bambini. Parigi non si riproduce, si recluta». In Piemonte uno ogni 4 (confronti in [71-72])

51.073 nutrici, un quinto delle quali addette ai trovatelli [73]

Infanticidi in [73] e seguenti

Nascite matrimoni e morti in Torino 1816-1836. Tabella in [78]

«Non c’è dunque da stupirsi se nel 1838 solo il 6,9% di tutti i torinesi superava i 60 anni» [79]

• Capitolo IV «Siamo circondati, siamo giornalmente assediati dagli accattoni»

«Siamo circondati, siamo giornalmente assediati dagli accattoni; e tale è il loro numero che, anche nella supposizione che tutti fossero veramente poveri e non viziosi, non sarebbe però possibile di avere né i mezzi né il tempo di fermarsi con tutti, e di soccorrerli tutti. Ond’è che siamo costretti a proseguire il nostro cammino senza badare né alle loro lagrime né ai loro più commoventi scongiuri, che pure, in teoria, non dovrebbero mai ferire indarno l’orecchio di un uomo qualunque, e particolarmente poi l’orecchio di un Cristiano» [11 dicembre 1827, memoria di L. Francesetti di Mezzenile, 80].

«La ricorrenza dei Santi e dei Morti era diventata poi un vero e proprio appuntamento fisso per migliaia di pezzenti, disoccupati, lavoratori stagionali, anche piccoli proprietari che sciamavano verso la capitale pure da località lontane, per disporsi in fila sui bordi della strada del Regio Parco che conduceva al nuovo cimitero e impetrare l’elemosina» [81]

«[...] Maria Gelati d’anni 27 di Traverse (Pinerolo), moglie di Artello Bartolomeo, incinta e prossima al parto, la quale questuava con quattro bambini sdraiati per le vie di questa Capitale [...]» [82]

«bisogno assoluto, in un’economia contadina ai margini della pura sussistenza, di quel lavoro invernale da facchino in città dei mariti e della questia delle moglie e dei figli» [82]

«Più in generale anzi, con la ricorrenza d’Ognissanti si potrebbe dire che iniziasse per la città un robusto afflusso di mendicanti che vi venivano a svolgere il secondo ciclo lavorativo del loro anno di vita stentata». Caso di Pietro Gattino, del bambino Giovannino e di altri bambini abbandonati [82-83]

«strade e portici divenivano la casa e il luogo di lavoro per ragazzi che, in gruppi o isolati, vivevano di espedienti, di illegalismi e di furtarelli, finendo poi nei cameroni del correzionale minorile o di istituzioni caritative» [85]

«Le proteste dei torinesi fioccavano, e anche dei viaggiatori stranieri, come quel conte che nel 1840 protestava per i piccoli lustrascarpe che inseguivano a frotte - come in certi paesi del Terzo Mondo - i viandanti: "Ad ogni svoltar di canto, ad ogni traversar di portici si è assediato da una turba di quei décrotteurs che fanno a gara per prevenire ciascheduno il passeggero, e lo inseguono ancora ch’egli è passato, sempre gridando con un tuono ed un fare insolentissimi, anche alla distanza di 20 passi" (lettera di Pier Francesco Cometti al Vicario 10 maggio 1840). Superati i ragazzini si trattava di scansare gli adulti, le prostitute, le venditrici di fiammiferi, abitini, immagini sacre, candele dinanzi alle chiese. Per non parlare poi degli isolati che era opportuno evitare del tutto, vere e proprie corti dei miracoli, zone franche popolate di ladri, ricettatori, contrabbandieri, disperati appena giunti in città, tra cui la stessa poilizia evitava, per quanto possibile di metter piede, rischiando il linciaggio per per reprimere illegalismi universalmente praticati. Si tratta di consistenti porzioni di Borgo Po e di Dora, di numerose casupole del contado, di Vanchiglia, del famigerato Moschino, i luoghi cioè della miseria più vistosa e della criminalità più diffusa, soprattutto in seguito all’"aumento avvenuto nella popolazione, e per la straordinaria ampliazione datasi all’antico perimetro della Città, e per le varie borgate erettesi sul territorio della medesima, ed abitate in gran parte da ganete sconosciuta e sospetta" (lettera del Vicario ai sindaci di Torino, 7 dicembre 1841). Era un vero grattacapo per il Vicario [questo vicario era poi Michele di Cavour - ndr] mandare degli arcieri in luoghi come il cantone dei Santi Bino ed Evasio - le poche case a fianco del tempio della Gran Madre, al di là del Po, lungo la strada per Moncalieri da una parte, per Chieri e Superga dall’altra - a perseguire "quei tanti che si annidano nelle case poste all’estremità del Borgo di Po, nel cantone così detto de’ Santi Bino ed Evasio, per attendervi ad ogni clandestino illecito commercio e segnatamente a quello delle carni, del vino e dell’olio che in gran parte comprano per introdurre un contrabbando nella presente Città [...] in detto Rione de’ SS. Bino ed Evasio ove è difficile agli stessi agenti di Pulizia d’introdursi illesi e di vegliare al buon ordine" (Vicario alla Gran Cancelleria, 9 settembre 1846) [...] [malfattori] e mendicanti avevano buon gioco nel far perdere le loro tracce tra i boschi e i sentieri della collina, dove erano in continuo movimento, secondo un’usanza ormai antica. Di notte poi e nella cattiva stagione, cercavano riparo nei fienili appartati o nelle stalle e nelle scuderie, dove magari la mattina successiva erano trovati morti per asfissia; negli inverni molto rigidi (come quello del 1830, o quelli del 1829 e 1837) erano anche abbastanza frequenti i casi di quelli "morti sorpresi dal rigor del freddo", o "morti gelati", come notavano puntigliosamente gli Stati ebdomadari della popolazione» [86-87]

Necessità di sfuggire alle grinfie degli arcieri: «sapevano che li attendeva l’arresto o la detenzione "per un tempo durevole", spesso solo sulla base delle antiche categorie dell’"ozio", del "sospetto" e del "girovagare" [88]

«gli ammalati poveri scaricati nella capitale dai familiari non più in grado di assisterli» [92] tra questi la Gioannina di anni 20, spedita da Bobbio a Torino, di cui il Vicario ebbe pietà e prima di rispedirla a Bobbio ne curò il «provvisorio ricovero quivi per non esporre quest’infelice nuovamente sulla strada nello stato compassionevole in cui si trova non avendo più la figura umana, ma quella di un mostro, priva già del naso, delle orecchie e della parte del viso per corrosione cagionata da grave scottatura sofferta e passata in cancrena [...] il ribrezzo e lo spavento che ha certamente prodotto questa infelicissima creatura ovunque passò» (24 maggio 1836) [93]

Impossibilità per luoghi come Asti (pop della provincia = Torino) di accogliere i malati in 94 n. 152

• Capitolo V I luoghi della pietà e del castigo [95]. Esamina gli ospedali e gli altri istituti di ricovero torinesi.

Editto del 24 dicembre 1836 sugli istituti di carità e di beneficenza [104]

«i letti di ferro si rinvennero tutti ricolmi di cimici» (ispezione all’ospedale Mauriziano 22 novembre 1831)

Attività del canonico Cottolengo in 117

«vedersi da qualche giorno percorrere le vie di questa città un individuo che cammina con mani e con piedi, tutto scomposto di corpo, il quale all’occhio di alcune persone può cagionare un qualche effetto e pena» (era un Gallo Gioanni fu Giuseppe, d’anni 27, sarto di professione, e ridotto in quello stato dopo la caduta da una quercia, prometteva di restar chiuso in casa notte e giorno se gli si desse da lavorare almeno per dieci soldi il giorno, in modo da mantenere sé e i due figli, in via S. Domenico al 3° piano, casa del sarto Morano Michele che lo accolse in un camerino per "tratto di vera amistà e carità"» (21 febbraio 1837).

«verso le nove di jeri mattina fu dagli agenti del mio Officio incontrato ed assicurato un giovane che percorreva correndo la via di Doragrossa, avente dei pezzi di catena infranti appesi alle mani ed ai piedi [...] niun’altra risposta dava che quella d’aver fame» (Francesco Pendino, di anni 23, agricoltore di Villastellone, fuggito dall’Opera Pia del canonico Cottolengo che poi lo mandò a riprendere) [121]

Trattamento della follia da 122 (quattro manicomi: Torino, Genova, Chambéry, Alessandria), aumento progressivo dei ricoverati poveri, luogo di, si ammassavano quegli infelici, sacrificati per la patria in 130,

Giulia di Barolo in 133. Impegnata con prostitute divenute poi quasi-monache. Iniziative in 134, scuole per ragazze povere da inserire poi come «domestiche, sarte, crestaie, ricamatrici e simili» [134]

Ex prostitute portate alla clausura del monastero delle Maddalene. Tutto rigorosamente privato, ma non respingendo il finanziamento pubblico [135]

Obbedienza, sottomissione, rassegnazione, ricompensa cristiana [136]

Bambini e ruota da 140

Sgombrare i poveri durante le feste (Vittorio Emanuele I) 143

Concessioni per il matrimonio di Vittorio Emanuele II (13 aprile 1842) [148]

fanno poco, fanno nulla in [153]

• Capitolo VI Le sconcezze di una contessa bella ed attraente in apparenza (cioè Torino)

«Torino era sporca, poco illuminata, maleodorante, mal tenuta; [...] il fatto è che l’edilizia, le abitazioni, le infrastrutture, i servizi non si svilupparono con la stessa rapidità e nella stessa quantità della popolazione. [...] All’inizio degli anni Quaranta la capitale del Regno Sardo conservava le caratteristiche di una piccola città in cui anche la dimensione mentale era spesso ancora quella contadina.
«Essa era compresa entro i grandi viali già ideati dai francesi all’inizio del secolo, a imitazione dei boulevards parigini: partendo da Porta Palazzo e procedendo in senso orario per la strada di Santa Barbara (l’attuale Corso Regina Margherita) e poi per la Strada di S. Maurizio (corso San Maurizio), si giungeva al Po; lo si costeggiava verso sud fino alla Strada del Re (corso Vittorio Emanuele II) fino alla piazza Carlo Felice, al cui fianco vi era la Spianata delle Armi; superata la quale si proseguiva per la Strada di S. Avventore (ancora l’attuale corso Vittorio Emanuele II), da cui risaliva verso nord-ovest la Strada di S.Solutore (Corso Inghilterra) che - oltrepassata la Porta Susina - si congiungeva alla Strada del Principe Eugenio (Corso Principe Eugenio) che sbucava nel circolo di Valdocco (quello che sarà poi il Rondò dla forca) e di qui per la Strada di S. Massimo (Corso Regina Margherita) si tornava a Porta Palazzo: il perimentro dell’intera città era compiuto. La abitava una popolazione il cui carattere i governanti, nei primi anni dopo la Restaurazione, definivano "industrioso assai, docile alle leggi, non privo d’ardore militare, come il provò nei lunghi servizi fatti dalle sue milizie urbane, in generale costumato, e religioso, affetto al suo Sovrano". Insieme ai quasi 90.000 abitanti essi censivano pure 2250 bovini, 1.500 cavalli per i lavori agricoli, per i trasporti e per il traino di 300 carrozze private e di 60 a nolo, e ben 25 mila tra pecore e capre, che durante l’inverno svernavano intorno alla capitale» [160]

Continuo risuonare di campane che «vous cause une sorte d’impatience et meme de tristesse; la vie semble aussi poussée, morcelée, brisée» (M. Valery) [160]

Il dialetto piemontese «si rauque, si criard, si grossier, qui sépare et isole ceux qui le parlent des autres italiens» (M. Valery) [161]

Il Francesetti, quando si recava nei suoi tenimenti di Mezzenile «partiva da Torino all’una di notte, per evitare il calore del giorno, viaggiava a cavallo con i familiari in carrozza, senza mai fermarsi fino a Lanzo, dove giungeva alle 5 del mattino; dopo Lanzo la strada, non tanto per la pendenza ma per le pessime condizioni, non era più percorribile in carrozza, ma solo a dirso di mulo o a piedi: perciò occorrevano altre quattro ore e mezza per coprire i restanti 12 chilometri; finalmente alle 9,30 del mattino giungeva a destinazione: otto ore e mezza per percorrere 45 chilometri da Torino. E ciò significava anche una certa struttura mentale, un modo di pensare che per noi non è sempre agevole immaginare» [161]

«Una città piccola dunque, abbastanza chiusa in se stessa, ancora raccolta intorno alle sue chiese e al suo palazzo civico, il quale restava - come nei secoli precedenti - il punto di riferimento per gli abitanti: in caso di incendi, di epidemie, e per tutte le incombenze anche minute della vita quotidiana, dall’andarvi a ritirare un oggetto smarrito («una goccia di diamante» o «una pipa guernita» o «una medaglia da scolaro» o «un biglietto del monte di pietà») come per osservarvi dentro la "griglia" nella "Corte del burro" i cadaveri degli sconosciuti esposti per l’eventuale riconoscimento» [161]

La Torino di oggi risulta venti volte la Torino di allora [162]

Le zone in cui era maggiormente concentrata la miseria, il Moschino (la fascia lungo il fiume, al fondo di Borgo Po, infestata di moscerini) e Vanchiglia [164]

Il Moschino descritto da G. Valerio (fratello) in [165]

Al Moschino «contrabando di spirito di vino, tabacco e simili». Resoconto di un misuratore in 166

«Vanchiglia era un grande deposito di rifiuti, "raccolti in due canaloni d’acqua [...] che scorrono con lentissimo corso scoperti [...] fino alla Dora. Ciò succede per diritti che i reverendi canonici della Metropolitana di Torino pretendono di avere ab antiquitus sopra le immondizie di ogni sorta della citta. Con questi diritti [...] i reverendi canonici innaffiano i prati che essi ancor possedono nella regione di Vanchiglia" [...] Non solo innaffiavano i prati i reverendi canonici, ma anche facevano essiccare in due grandi vasche al sole estivo una parte di quel liquame putrido, per ricavarne concime da vendere. Al punto che lo stesso magistrato di sanità pubblica constatava che il palazzo reale, a circa due chilometri di distanza, "è costretto di tener chiuse nello state le finestre prospicienti la mezzanotte per evitare i cattivi miasmi che esalano dal malaugurato quartiere di Vanchiglia, per le putride fogne che ivi si mantengono» [167-168]

Insediato a Vanchiglia nel 1826 uno dei due macelli, l’altro collocato nei pressi di Borgo Dora, a Porta Palazzo [168]

Numero e incremento delle case tra il 1818 (1250 case in tutto per 18.931 famiglie) e il 1848 (1382 case per 23.592 famiglie). L’aumento delle case era stato inferiore a quello delle famiglie, da cui sovraffollamento [168-169]

Quattro componenti in media per famiglia [168-169]

«Le vie di Torino erano solamente selciate; in mezzo ad esse scorrevano gli antichi rigagnoli d’acqua, le doire, che si diramavano da un serbatoio presso Porta Susa, risalente ai tempi di Emanuele Filiberto». Maleodoranti eccetera, dal 1843 riforma del selciato con introduzione di «rotaie di pietra» e marciapiedi, «materie immonde raccolte in pozzi neri situati nei cortili, negli androni o dinanzi agli edifici, e vuotati periodicamente» [170-171]

«Numerosi orinatoi» e sistema in genere coin obbliìghi per pubblici esercizi in 171

«Le case munite di bagno privato erano pochissime (solo nel 1825 si era dato inizio alla costruzione di bagni a domicilio nelle residenze nobiliari): gli stessi benestanti, quando non si servivano della tinozza, ricorrevano all’affitto a ore di un apposito carro che portava a domicilio tutto l’occorrente, dalla vasca all’acqua tenuta in caldo da una stufa, spendendo per un’ora e mezza una lira e 75 centesimi. I bagni pubblici erano 6, intorno al 1840, con tariffe altrettanto elevate [...] solo nel 1827 furono collocate nel palazzo municipale le prime tre fontane pubbliche. Occorrerà attendere il 1859, trent’anni dopo Parigi, per l’inaugurazione del primo tronco dell’acquedotto» [171]

500 lampioni con olio e stoppino. Buio [171]

Gas nelle case nel 1839 [172]

Organizzazione dei mercati in [172]

«Si pensi ai consigli dati ai panettieri, come quello di fare il grosso sforzo di cambiarsi la camicia una volta la settimana e di lavarsi mani, piedi e testa; o quell’altro, di non depositare direttamente sulla terra battuta che formava il pavimento gli ingredienti della panificazione» [173]

Luogo della pena di morte in [174]

«Esistevano però anche occasioni di svago meno cruente, per esempio giocolieri e saltimbanchi, suonatori e cantastorie ambulanti, oppure a porta Susina a vedere le bestie feroci; con venti soldi per i primi posti o 5 per i terzi, si potevano ammirare nel 1834 "multiformi spaventevoli belve vive" tra cui "un leopardo dell’Asia: egli è ancora selvaggio, che non si è potuto finora addomesticare", "il Satiro, ossia l’uomo selvatico", "un castoro dell’Affrica: belva sagace che con la sua coda si forma il ricovero", "una scimia chiamata Munica, avente il muso bianco, le barbette candide come la neve e una gran coda lunga poiù di due braccia". Avveniva talvolta anche un’ascensione areostatica; oppure - sul finire degli anni Quaranta - capitava di osservare il primo omnibus cittadino col "fragore delle sue ruote, lo scalpito de’ suoi destrieri, lo squillo de’ suoi bronzi"» [175-176]

Non c’era minaccia sociale avvertita come incombente [176-177]

Capitolo VII Una polizia occhiuta, una forca tarlata, un boia filosofo (la sicurezza in città: malavita e polizia)

«Una città di diseredati più che di criminali» [180]

Borsajuoli di professione, diffusissimi nella Capitale [183]

I truffatori che aspettano i contadini per studiarne l’espressione di "bonetudine od inesperienza" [184]

Gioco d’azzardo nei prati intorno alla Cittadella [185]

Libretto di lavoro in [188] (introdotto a Torino nel 1818, in tutto il Regno nel 1829).

Carta di permesso comprovante l’avvenuta registrazione come accattone, e di esibire sul petto una placca di rame per poter chiedere l’elemosina nella capitale [188]

Forza di polizia: 4 commissari, 26 guardie civiche, 14 arcieri nel 1841 [189]

Incombenze della polizia in [191]

Come abbattere i cani randagi [191]

Struttura delle famiglie, autorità assoluta del marito su moglie e figli [193]

Perché le donne da noi sono migliori che all’estero [194]

Carabinieri da 196

Nota negativa su Michele di Cavour in 205

Pena di morte da 205 in poi (boia Pantoni), esecuzioni in Valdocco (due buche)

• Capitolo VIII La nuova "ortopedia morale" per i ceti popolari

«Ai nuovi gruppi dirigenti cominciava ad apparire meno efficace l’antica tecnica del bastone e della carota, con la Chiesa a predicare rassegnazione e premi nell’aldilà; essi intendevano portare avanti, peraltro senza rinunciare ai mezzi del passato, anche una propria azione, laica e borghese, di "incivilimento" - come allora si diceva - delle masse popolari, con la persuasione, con la formazione delle personalità estranee ai propri valori, con la scuola, con una nuova attenzione a segmenti del popolino (per esempio, l’infanzia) finora esclusi» [243]

Miglioramenti: intervento pubblico, lieve diminuzione dei disoccupati, stimolo anche all’investimento privato [244]

«Lento emergere di una nuova classe dirigente ad alto livello [...] entro però una complessiva adesione alle posizioni del liberalismo moderato e graduale» [245] Nomi della classe dirigente in [246]

«Uomini uniti da una volontà di ammodernamento, di "conservare svecchiando", di pensare a "riforme ed ampie riforme" preventive - come scriveva Cesare Alfieri a Federico Sclopis - per non correre anche in Piemonte rischi come quelli della Rivoluzione di Francia. Anche se, nelle intenzioni del sovrano e nella linea da lui perseguita, questa azione riformatrice (pur incontrandosi con il crescente dinamismo e il bisogno di affermazione della borghesia agraria, commerciale, manifatturiera e delle professioni, e con le aperture di parte dell’aristocrazia) non doveva complessivamente valicare limiti precisi: una tutela inalterata degli equilibri sociali e politici, un rafforzamento del regime monarchico assoluto, la realizzazione del controllo più completo sulla vita interna del Paese. Insomma un "cesarismo illuminato di tipo napoleonico", per dirla con Rodolico; un "paternalismo assolutistico" per usare l’espressione di Romeo» [247]

«Tout améliorer et tout conserver» [247, motto di Carlo Alberto]

«Si ha l’impressione di un fiume carsico che torni a riaffiorare, tra la metà degli anni Trenta e la metà degli anni Quaranta, via via più impetuoso, seppur non molto ricco d’acqua, il fiume carsico dei gruppi borghesi e nobiliari più attivi, già rafforzatisi durante l’epoca napoleonica ed emancipatisi da atteggiamenti assenteistici settecenteschi; poi come interratisi negli anni della recessione economica, della stagnazione, delle epurazioni e del tentativo di riportare all’indietro le lancette dell’orologio» [248]

Gruppo dirigente chiamato da Carlo Alberto tra l’estate del 1831 e la primavera del ’32 era tutto di formazione napoleonica. Era di formazione napoleonica anche Carlo Alberto (Interno: Tonduti de L’Escarène; Finanza: Caccia di Romentino) [249-250]

«Su 4 milioni circa di abitanti non più di 38 famiglie possiedono un reddito superiore ai 20 mila franchi» (Quazza, 1951, parlando della scarsità di capitali e capitalisti) [250]

Non c’è ancora il modo di produzione capitalistico o la classe operaia [252]

«Era esclusa una via di tipo industriale, considerata, tra l’altro, foriera di disordine ed eversione sociale. Venivano ripresi e rinverditi gli stereotipi settecenteschi contro la città immorale, criminale, ammaliatrice, rifugio di una massa incontrollabile di individui; erano in molti ad alimentare una linea di drastica opposizione all’urbanesimo e all’industrializzazione, a voler realizzare un’inversione di tendenza rispetto alla corsa dei contadini "a gettarsi nelle città ove la moralità delle classi minori si dilegua, ove le passioni politiche concitate, ove la copia dei divertimenti inducono all’ozio e allo spreco di denaro e fanno prendere male abitudini da cui derivano la perdita della salute e l’impoverimento. [Nelle città] ove sono il più degli opifizi e delle fabbriche, il comodo e il lusso delle classi agiate destano una perniciosa invidia nelle classi povere. Quei cocchi, quegli abiti sfarzosi, quelle vetrine adorne di ricche stoffe, di pregiati arredi e di squisiti alimenti, quelle musiche [...] quei sontuosi caffè, tutto insomma eccita desideri nell’animo del proletario [...] Non solo le città, ma le intiere province manifatturiere presentano, a petto delle province agrarie, una differenza notevole in fatto di costumi" (G. Vegezzi, 1848)» [253]

Il Piemonte «creato agricolo» [253]

L. Ligorio, sulle Letture di famiglia: «Chi ad altro non guardi che alla miseria, ai trambusti, alle violenze degli operai di Manchester e di Leeds, gran motivo abbiamo di tenere quel sistema di manifattura una gran diavoleria, né possiam tanto che basti lodare il Signore che ci tenne finora esenti da così deplorabili sciagure» [256]

Importanza della carità in Cavour: «Aucun sujet ne mérite plus de fixer leur (dei filantropi e degli uomini in generale) attention que celui de la charité; qui, dans le sociétés telles que la marche des choses tend à les constituer, sera peut-etre le seul lien qui unira les différents classes d’individus. Le lien féodaux sont détruits, les souvenirs, les traditions n’ont plus d’empire; il n’y aura bientot plus d’autres rapports entre les classes riches et les classes pauvres que ceux de l’intérét oe de la bienfaisance. Puisse l’empire de ces derienrs acquérir chaque jour de nouvelles forces; nous devons le désirer non sulement par amour du bien et par esprit de religion, mais encore par notre intéret bien entendu; car sans l’influence que la charité exerce sur les classes malheureuses, celles-ci ne se soumettraient pas longtemps paisiblement à leur sort, dans un tat où l’on a renoncé à l’action de la force materielle comme action de gouvernement» (lettera a Jean-Jacques de Sellon, marzo 1836) [258]

Il povero doveva restar fermo al suo paese. Se no la polizia lo inseguiva e rimpatriava

Tra le ragioni per cui il numero di poveri non diminuisce: «De ce que le sol de plusieurs provinces est improductif, et l’industrie des habitants encore peu active [...] L’existence du pauperisme m’est point simplement l’objet d’une question fiscale ou une affaire de police, mais elle tient en quelque sorte aux conditions essentielles de notre exiostence sociale. La guérison de cette infimité qui flétrit le sociétés modernes ne saurait donc s’opérer uniquement par l’adoption de quelque mesure administrative, ni meme par le développement toujours croissant de l’esprit de bienfaisance, auquel on doit déjà de si belles et utiles institutions; ce bienfait ne peut etre que le fruit d’une civilisation plus complète [...] progrès de l’esprit d’association [...] L’existence du pauperisme n’est point simplement l’objet d’une question fiscale ou une affaire de police, nais elle tient en quelque sorte aux conditions essentielles de notre existence sociale. La guérison de cette infimité qui flétrit les sociétyés modernes ne saurait donc s’opérer uniquement par l’adoption de quelque mesure administrative, ni meme par le développement toujours croissant de l’esprit de bienfaisance, auquel on doit déjà de si belles et utiles institutions; ce bienfait ne peut etre que le fruit d’une civilisation plus complète. C’est dans le progrès de l’esprit d’association qui, substituant aux efforts isolés le travail mis en commun, et réunissant en faisceau de faibles capitaux épars auxquels de hautes spéculations seraient interdites, permet à l’industrie de se développer son génie et son activité dans de vastes entreprises, et accroit à l’infini la somme des forces productives» (Cesare Alfieri, 1834) [260]

«Ortopedia morale»

«Prima di tutto si intendeva insegnare ai ceti popolari ad accontentarsi del loro stato e a moderare le aspettative di miglioramento. Nel condannare "la brama divenuta ormai generale nell’infima classe del popolo di cambiare condizione e, mutando stato, diventare da servi padroni" (Trompeo) concordavano tutti, dal dotto medico alienista agli elargitori di consigli per vivere 104 anni [262]

Trattamento degli internati in [262-263]

«Per questi filantropi, insegnare ai poveri a tenersi puliti non poteva essere disgiunto dall’insegnare loro ad essere docili, devoti, obbedienti» [263]

«La pulizia è l’eleganza dei poveri» [dall’Emporio di utili cognizioni del giugno 1836, 263]

Un quotidiano costava il 20-35% di una giornata di salario qualificato nelle manifatture torinesi [264]

Ortopedia morale attraverso l’esercito [265]

Come funzionava il servizio militare [265]

La coscrizione fa vergognare di andare a chiedere la carità per strada [Cavour nel 1834, 268]

«A quelli poi che citavano le statistiche francesi sull’aumento correlato dell’istruzione e della criminalità, si obiettava che la Francia aveva fatto l’errore di separare l’educazione e la religione» [271]

«Occorreva dunque insegnare ai figli dei poveri la religione e i rudimenti del lavoro (dell’agricoltore e dell’artigiano, non quello manifatturiero)» [272]

Bisogni dei figli del popolo secondo Tancredi di Barolo (1832): «I bisogni principali [...] si riducono per la parte fisica al non provare la fame, il freddo, le battiture, allo sfuggire i tanti pericoli che la minacciano, ad aver cibo salubre, temperatura discreta, aria buona, pulizia necessaria, libertà di moto salutare, tenor di vita allegro e regolato». Per i bisogni morali «l’allontanamento dai cattivi esempi e da ogni impressione del male, l’ubbidienza, l’amorevolezza, la veracità, qualche insegnamento elementare, qualche lavoretto, e più di tutto i principii di religione da inculcarsi per ogni via formano il complesso della parte morale di siffatta educazione» [273]

«La realizzazione di gran parte di queste idee - al di là delle iniziative già messe in atto dai Barolo, aprendo i battenti del proprio palazzo ai bambini poveri - avvenne di lì a pochi anni, quando Tancredi era già scomparso e mentre il dibattito sull’educazione popolare e infantile si faceva più intenso, con la nascita nel 1839 della "Società per l’istituzione delle scuole infantili e pel patrocinio degli alunni", e con l’apertura di una prima scuola nella sezione di Po, sul modello dell’asilo aportiano inaugurato nel 1837 a Rivarolo Canavese» [274]

«Nel 1841 queste scuole infantili erano già 15 in tutto il Regno; sei a Torino, di cui una a Palazzo Reale, due gestite da privati, altre due dalla Società per l’stituzione delle scuole infantili, una dal canonico Cottolengo; una a Rivarolo Cavanavese, due a Genova e una a Savona; una rispettivamente a Mondovì, a Saluzzo, a Pallanza, a Intra, a Novara» [275]

«Nasce così nel 1850, per bambini e ragazzi tra gli 8 e i 16 anni, la Società di carità a pro’ dei giovani poveri ed abbandonati in Torino con lo scopo "di soccorrere tanti poveri giovani, che passeggiano vagabondi le vie, od ingombrano oziosi le piazze della nostra città, orfani od abbandonati, o malamente assistiti dai propri parenti; e di provveder loro sì per l’an ima, che pel corpo, nel miglior modo che le sia possibile, secondo la cristiana carità ed i mezzi dei quali potrà disporre» [275-276]

Cronologia dei regolamenti di istituzioni sanitarie ed assistenziali in [276] nota 532.