Riccardo Sorrentino, Il Sole 24 Ore 15/7/2010, 15 luglio 2010
MISTER RAJAN CHE NEL 2005 DISSE: «ATTENTI ALLA CRISI»
Ha un triste primato, Raghuram Rajan. Fu uno dei primi, nell’ormai lontano 2005, a lanciare l’allarme sui rischi di una crisi epocale. Dopo l’eterodosso Willie Godley, in parallelo alla Bri di Basilea, ma prima di Nouriel Roubini e di tanti altri.
Il suo exploit non è stato però quello di aver preceduto gli altri, ma la qualità del suo uditorio. Rajan non ha pubblicato i suoi moniti su un sito, un giornale o in una ricerca diffusa solo tra economisti. Li ha discussi, da capo economista del Fondo monetario internazionale, di fronte a una platea d’eccezione.
Ad ascoltarlo, all’annuale simposio di Jackson Hole, organizzato dalla Fed di Kansas City, c’erano tra gli altri Donald Kohn, governatore e poi vicepresidente della Fed di Washington, Stanley Fischer, noto economista e governatore di Israele, monsieur Jean-Claude Trichet della Bce, il "falco" della Bundesbank Axel Weber, l’attuale consulente di Obama Lawrence Summers.
Rajan non fu creduto, non fu ascoltato. Eppure il suo discorso era semplice, e sostenuto da un’ampia ricerca, ora sviluppata nel libro Faulty lines. How Hidden Fractures Still Threaten the World Economy. Economista di Chicago, autore con Luigi Zingales del saggio Salvare il capitalismo dai capitalisti, egli non era neanche sospettabile di pregiudizi contro Borse e mercati. Con il suo background poteva, anzi, separar bene la fisiologia dalle patologie del sistema. Suscitò invece solo scetticismo: non era forse, quel simposio, dedicato a cantare le lodi di Alan Greenspan e della sua dottrina sul migliore dei mondi (finanziari) possibile?
Rajan non aveva detto nulla di inaudito? Sapeva che l’evoluzione finanziaria «ha aumentato notevolmente le opportunità e... ha reso il mondo di gran lunga migliore», ma aveva ricordato che «le opportunità posso essere usate bene o male». Aveva quindi sottolineato i «comportamenti perversi» dei manager invitati da tassi molto bassi e incentivi «non allineati» ad assumere rischi che non si riflettevano sui prezzi degli assets (e quindi non lanciavano segnali agli investitori). Erano inoltre spinti a "seguire il gregge" perché così non avrebbero fatto mai peggio dei concorrenti, con l’effetto però di far «allontanare le quotazioni dai fondamentali».
Rajan non ebbe paura di rivelare le possibili conseguenze. «Dovremmo essere preparati - concluse - a una svolta sfavorevole, poco probabile, ma molto costosa. In un’eventualità simile - aggiunse - le perdite causate da una catastrofe finanziaria non potranno essere sopportate solo dalla generazione attuale, ma dovranno essere condivise con quelle future». Chiedeva quindi grande attenzione e una politica monetaria più attenta alle quotazioni finanziarie.
Gli rispose un coro di critiche: Summers, Fisher, l’ascoltato economista Allen Sinai. Axel Weber, che oggi dà lezioni di rigore all’Europa (ed è candidato alla presidenza della Bce), fu il più duro. Gli disse in buona sostanza: «Lavora un po’ meglio, su questi argomenti», invitandolo a riportare il discorso nell’alveo dell’ortodossia della politica monetaria che prevede due obiettivi, l’inflazione e, in subordine, la crescita.
Kohn gli rispose elogiando la dottrina Greenspan, fiduciosa nelle capacità autoregolative della finanza, e ammise solo che «ricordare al pubblico dell’incertezza intrinseca nell’evoluzione dell’economia e delle risposte politiche è appropriato e dovrebbe avere qualche effetto». Fu la strada degli interventi verbali che, in effetti, seguirono molti banchieri centrali, anche alla Bce. Trichet, in quell’occasione, sottolineò - come fa ancora oggi - la necessità di maggior trasparenza. Solo Alan Blinder, economista senza pregiudizi ed ex vicepresidente della Fed si alzò per «difendere un po’ Raghu - lo chiamò così - da questo attacco incessante». E ricordò che il nodo degli incentivi era noto dai tempi della Ltcm, il fondo fallito rumorosamente nel ’98. Una storia antica, insomma, che si ripete perché qualcuno non vuole ascoltare.