Giuseppe Mammarella, Il Messaggero 13/7/2010, 13 luglio 2010
COPPA DEL MONDO ALLA SPAGNA
Non senza perplessità e con qualche riluttanza val riconoscere che in un mondo in cui tutto è politica anche lo sport e soprattutto il calcio che degli sport è il più popolare diventa politica e della politica assume le espressioni e talvolta il linguaggio. Lo slogan che ha accompagnato la squadra spagnola nel viaggio in Sudafrica era ”podemos” (cioè, possiamo farcela a vincere la Coppa del mondo finalmente dopo tanti tentativi falliti), l’equivalente del ”we can” che ha connotato tutta la campagna elettorale di Obama. Ed ha buon gioco Zapatero, ora che quell’impegno è stato soddisfatto, anche se con un colpo fortunato all’ultimo momento, ad invocare l’unità e la creatività della Spagna e ad esortare il Paese ad identificarsi nello stile della squadra nazionale spagnola. Diversamente, ma sempre secondo la valenza di sport e politica, la squadra francese vincitrice della Coppa nel 1998 eliminata senza aver vinto una sola partita e dopo lo scontro tra l’allenatore Domenech e Nicolas Anelka, la star della squadra, è stata secondo il ministro dello Sport la protagonista di un «disastro morale» che ha «oscurato l’immagine del Paese». La mediocre performance della nostra nazionale non ha suggerito giudizi di carattere politico ma come dimenticare il rilievo che nel 1982 il presidente Pertini dette alla vittoria della nazionale di Bearzot riportandosi a casa l’intera squadra sull’aereo presidenziale? Quella vittoria che cadeva alla fine di uno dei più difficili e drammatici decenni della nostra vita politica sembrava quasi preannunziare il ritorno pur breve e drogato dai crescenti deficit finanziari al miracolo economico degli anni Cinquanta e Sessanta. E in termini politici viene valutato anche il successo del Sudafrica nell’organizzazione dei giochi che secondo quasi tutti gli osservatori la condotta del mondiale ha promosso non solo il Paese ospitante, dimostrandone la capacità organizzativa rafforzando la coesione fra una maggioranza nera e la minoranza bianca, ma lo stesso continente africano. Ma cosa nasconde tanta euforia, l’ottimismo dei vittoriosi e l’amarezza dei perdenti? Con l’occupazione dei primi tre posti in classifica Spagna, Olanda e Germania, l’Europa ha dimostrato di dominare quello sport che un tempo era monopolizzato dai sudamericani. La Spagna poi vincitrice del mondiale è emersa negli ultimi anni con splendide performance anche in altri sport riuscendo a proiettare l’identità di Paese giovane, dinamico e ad attrarre attenzioni, simpatie e capitali. Ma davanti ai colpi della crisi questa immagine si è trasformata in quella di un Paese in seria difficoltà per il presente e ancora più per il futuro. L’aver costruito il proprio miracolo economico sul turismo e sull’edilizia, cioè sulle produzioni di un’economia di consumi di cui la crisi ha dimostrato l’insostenibilità, condanna il governo oggi socialista e domani forse democristiano a rivedere radicalmente programmi ed obiettivi in un processo che non sarà né facile né rapido e che per ora e per il prevedibile futuro inchioda il Paese ad una disoccupazione che raggiunge quasi il 20 per cento della forza lavoro e il 30 per quella giovanile. E non è il solo problema che smaltita l’euforia della vittoria la Spagna dovrà affrontare. Nonostante la fusione nella nazionale delle due maggiori squadre del Paese, il Barcellona e il Real Madrid, che riflettono le due identità storiche, quella della Catalogna e della Castiglia, resta sullo sfondo quello che da molti anni è il male sottile della Spagna: un regionalismo periodicamente e drammaticamente scosso da tentazioni scissioniste. In Francia la pessima performance della squadra rischia di dare nuovo alimento ad un dibattito ormai più che decennale sul declino del Paese proprio nel momento in cui le azioni personali di Nicolas Sarkozy stanno affondando sotto il peso del caso Bettencourt e dei sondaggi sfavorevoli. Il presidente, eletto tre anni fa fra speranze e promesse si sta rivelando ben lontano da quel ”nuovo De Gaulle per salvare la Francia” invocato da Nicolas Bavarez, il più noto tra i molti teorici del declino. E sempre sul piano delle simbologie anche la squadra tedesca celebrata per la sua freschezza e l’agilità delle sue strategie non corrisponde certo alla classe politica del Paese che si muove con lentezza e le cui cautele rischiano di bloccare sul nascere ogni proposta di rinnovamento. Ecco quindi che caricare lo sport e le grandi manifestazioni sportive di un significato politico si rivela sbagliato e alla lunga pericoloso per le inevitabili delusioni del dopo. Le vittorie sul campo da gioco non corrispondono né tantomeno preparano quelle delle nazioni il cui futuro resta sempre e inevitabilmente condizionato dalla qualità della classe politica e dalle capacità del Paese a valutare realisticamente i propri problemi e le più appropriate soluzioni.