Filippo Ceccarelli, la Repubblica 15/7/2010; Benedetta Craveri, la Repubblica 15/7/2010; Giorgio Bocca, la Repubblica 15/7/2010;, 15 luglio 2010
SALOTTI. COME SONO CAMBIATI I LUOGHI DOVE SI INCONTRANO I POTENTI
(tre articoli) -
FILIPPO CECCARELLI PER LA REPUBBLICA DEL 15/7/2010 -
Chi ci salverà, chi si salverà dai salotti? I "salotti buoni", per dire che sono invece cattivissimi; poi i "salotti romani", come risuonano nell´immaginario incubatico padanista; quindi i "soliti salotti" per designare la più generica, ambigua e agognatissima sfilza di divani forti, terrazze da inciucio, nuovi anfitrioni e consuete signore in perenne e "salopportunistico" riallineamento.
Perché non c´è più l´Angiolillo, salotto che nato andreottiano nell´arco di un trentennio ha via via svolto funzioni rizzolian-tassandiniane, bisagliane, lib-lab, archeo-berlusconiane, diniane, lettiane con slittamenti dalemiani e infine bloccasterzo a sinistra. Ma sulla strada della mondanità istituzionale è pur vero che seguitano a organizzare serate le Carraro, le Verusio, le Suspisio, le Deodato, le Garito, le Olivetti, le Pecci Blunt, più varie ed eventuali. Non solo, ma con uno strappo alle consuetudini di genere, che da Madame de Stael vogliono tale universo affidato a cure femminili, ecco che ad apparecchiare privatissime ancorché clamorose "occasioni" di potere ci si è messo anche Bruno Vespa, con i suoi amici presidenti, iper-banchieri e cardinaloni. Proprio lui che qualche tempo fa, irritato per un malevolo commento su una puntata di Porta a porta, salotto televisivo per antonomasia, aveva deplorato le chiacchiere "casta a casta" all´interno del salotto buono dei giornali e dei loro editori. «E per favore – aveva concluso Vespa, già trepido cantore delle atmosfere angiolillesche – non mi si sfidi a documentarlo».
Ecco, a proposito di documentazione giornalistica: chi da tempo abbia raccolto materiali e reperti rubricabili sotto la voce "salotti" è oggi sopraffatto da un senso di saturazione per la vertiginosa, pervasiva e stucchevole mole di titoli a effetto accumulatisi negli anni, e foto civettuole, mappe e toponomastica degli indirizzi più frequentati, e menu, ritratti, curiosità, resoconti encomiastici e stranianti: qui la Mussolini canta O sole mio, là Veltroni risolutamente ha negato di aver ballato il cha-cha-cha, in quella casa i leghisti sono conquistati dalla "pajata", in quell´altra magione, previo opportuno depistaggio dei paparazzi, "agguerrite ciampiste" hanno degnamente celebrano i ministri-professori; e tutto questo mentre nel corso dell´eterna transizione italiana "ricicciava" De Michelis, si allestiva il cocktail referendario e bipartisan, impazzava "Prezzemeluzzi", era riammesso Pillitteri, Prodi sbagliava giorno al villino Giulia, Donna Assunta incontrava Sharon Stone, "Tutti da Sandra domenica sera", Berlusconi aggiustava l´impianto della luce dell´Angiolillo, e vanitas vanitatum, quello stesso ormai non più salotto ineluttabilmente ricordava a Vittorio Sgarbi «la Fenice dopo l´incendio».
Ah, i salotti: le meraviglie della post-politica. Luoghi esecrandi e al tempo stesso agognatissimi nei quali comunque occorre sapersi comportare, come s´intuisce dal prezioso frammento d´intercettazione telefonica a un manager televisivo: «Non è che una volta entrato nel salotto buono, tiri fuori l´uccello e cominci a fare pipì sulla tappezzeria». Eh, no! Fatue escrescenze della scena pubblica, ma anche strategiche camere di compensazione degli arcana imperii, roba perciò di quattrini più o meno facili, valutazioni di disponibilità e velenosi pettegolezzi. «Laboratori in cui si fabbricano in vitro ipotesi politiche» per lo più rovinose, secondo il ministro Tremonti; «il salottame che mangia nouvelle cousine» a detta del ministro Rotondi in vena di ardente populismo. Fino al cartello comparso nella manifestazione cui volle partecipare l´allora presidente della Camera il primo maggio del 2008: "Bertinotti, torna nei salotti" – che dopo tutto faceva pure rima.
Arduo delineare il perimetro dell´enigma salottologico anche nel discorso giornalistico. Paolo Mieli ha attribuito il loro irresistibile potere alla «fantasia della grande provincia italiana»; Barbara Palombelli li ha qualificati «ferocissimi cannibali: si nutrono di carne umana e ne cercano di sempre nuova». I politici sembrano attratti e insieme hanno un sacro timore di questi consessi: la loro stessa trasfigurazione in ospiti rende infatti l´invito un felice riconoscimento di status, accende le speranze e in ogni caso garantisce l´appartenenza alla neo aristocrazia conviviale dei vips. Ma quando non si è più chiamati al rito del sofà, della mozzarella e della brillantezza obbligatoria la disgrazia è prossima e l´oblio non tarderà.
Un tempo ce n´era meno bisogno. Da succursali e dépendances del potere, con la complice promiscuità che vige nella Città Eterna i salotti sono divenuti centrali. «Più party e meno partiti» scriveva del resto Roberto D´Agostino prima ancora di dar vita a Dagospia (1997). L´ipotesi è che l´odierna proliferazione dipenda dal tramonto dei luoghi deputati della politica, a cominciare dal Parlamento, e dalla sua inarrestabile privatizzazione. In questo senso, sempre a occhio, si direbbe che fatti salvi maneggioni, cicisbei e cortigiane, dalla metà degli anni novanta i salotti abbiano finito per svolgere soprattutto compiti di legittimazione politica e di integrazione sociale. Vedi l´esame superato dal rustico Bossi a casa Verusio nel 1995: «La sua rozzezza – commentò la padrona di casa – è così plateale da aver qualcosa di sublime». O la scena di D´Alema, appagato ex figlio del Partito Comunista Italiano, ammesso a gustare lo storione affumicato tra le porcellane dell´Angiolillo, allorché «nel silenzio della Trinità dei Monti si sentì il fragore della caduta di un nuovo, piccolo, significativo muro di Berlino», come si può leggere in un Vespa d´antan.
Ma si trattava pur sempre di un crollo tutto interno al ceto di potere. E tra una cena e l´altra, ormai, la separatezza della politica coincide con la sua mesta e ridanciana inaccessibilità.
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IL CONFRONTO DELLE IDEE -
BENEDETTA CRAVERI PER LA REPUBBLICA DEL 15/7/2010 -
stata la marchesa di Rambouillet che, intorno al 1620, ha aperto per prima le porte della sua casa parigina a un gruppo di ospiti scelti per il puro piacere di ritrovarsi insieme, fissando così la forma archetipica del salotto e dettando le regole che avrebbero imposto la socievolezza aristocratica francese all´ammirazione dell´Europa intera.
Erano regole di eleganza e di cortesia che dovevano stemperare la violenza di una casta guerriera e contrapporre alla logica della forza e alla brutalità degli istinti un´arte di stare insieme basata sulla seduzione e il piacere reciproco. Ma il gesto inaugurale della marchesa aveva anche un significato politico e si faceva interprete di un sentimento diffuso. Richiamata all´ordine da Richelieu, privata progressivamente della sua autonomia e del suo potere dal rafforzamento dell´autorità monarchica, la nobiltà francese prendeva così le distanze della corte, si dotava di uno spazio proprio, a metà strada tra la sfera pubblica e quella privata, dove essere felicemente se stessa e perseguire uno stile di vita unico ed inimitabile. Rito centrale della nuova socievolezza era la conversazione. Destinata a rafforzare la coesione degli happy few, quest´arte della parola condivisa non era solo il segno distintivo di tutta una casta ma produceva svago, divertimento, informazione, cultura, piacere.
A consentire la nascita del salotto e a fare una istituzione tipicamente parigina avevano contribuito tre "eccezioni" francesi. La libertà e l´autorità di cui godevano delle donne – fenomeno allora unico in Europa – in seno alla società nobiliare; il processo di centralizzazione della monarchia assoluta che, concentrando le élites aristocratiche nel raggio di qualche decina di chilometri, tra la capitale e Versailles, favoriva la nascita di uno stile di socievolezza nazionale, e la presenza degli intellettuali con il compito di contribuire con la loro intelligenza e la loro cultura ad arricchire e variare la conversazione.
Con l´avvento dei Lumi i salotti allargavano la loro sfera di influenza investendo i problemi fondamentali della nuova cultura. Al servizio della verità e non più del semplice divertimento, la parola doveva favorire i progressi della ragione, promuovere il confronto delle idee, rafforzare la preoccupazione del bene pubblico. I grandi salotti intellettuali dell´epoca sono altrettante varianti di quest´unico, ambizioso progetto.
Nata come sfida utopica, la conversazione, in effetti, aveva via via forgiato un sistema di comunicazione che, affidandosi esclusivamente al rispetto delle buone maniere, permetteva ora alla società civile di dotarsi del suo proprio foro, di una libera assemblea a porte chiuse. La parola privata veniva così a supplire all´assenza in Francia di una parola rappresentativa, in attesa di riformare lo Stato assoluto in una monarchia parlamentare. Con il sopraggiungere del 1789 sarebbe stata infine l´oratoria pubblica a soppiantare la conversazione sui banchi dell´Assemblea nazionale.
Nessuno ha illustrato meglio di Madame de Staël che lo aveva sperimentato di persona negli anni a ridosso della Rivoluzione, il potere di coinvolgimento psichico ed intellettuale della conversazione francese giunta al suo zenith. Ma se nell´esilio a cui l´aveva condannata Napoleone proprio per la sua libertà di parola, la nostalgia della grande scrittrice andava al passato, ella continuava, tuttavia, a sperare nel futuro. Il futuro di un paese, retto da una libera costituzione, dove dovevano essere non già i salotti bensì i giornali, i partiti, il parlamento a fungere da pubblica palestra al confronto aperto delle idee e delle scelte politiche. Una speranza che non ha mai smesso di essere attuale.
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LE CONGIURE DEL PASSATO -
GIORGIO BOCCA PER LA REPUBBLICA DEL 15/7/2010
I salotti hanno sempre avuto un ruolo da protagonisti della politica italiana. La caduta del fascismo, per dire, si presenta come una grande congiura dei salotti che assistono al crollo del regime e alla defenestrazione del duce come a una scena teatrale con gli invitati eccellenti che assistono dai loro palchi.
Roma 24 luglio del ´43. Le rovine, i palazzi barocchi nella calura e un regime che si suicida davanti a tutti i suoi attori e comprimari. stato Mussolini regista di questo finale. Alle otto della sera è ancora al tavolo di lavoro per dare disposizioni. Niente moschettieri di guardia, niente militi della divisione M, niente scorta al labaro del partito. Lui solo febbricitante per l´ulcera di fronte al Gran Consiglio che sta per ripudiarlo. E intanto i salotti romani del potere si preparano ad assistere alla congiura a cui tutti i signori del regime che per venti anni hanno governato il paese partecipano: gli uomini del re che preparano l´arresto del duce, l´autoambulanza nascosta fra gli alberi dopo l´ultima udienza reale. In Sicilia è caduta Palermo, le armate alleate stanno per invadere la penisola, ma il salotto della politica si occupa di se stesso, sta prendendo posto negli alberghi di via Veneto, vuole seguire da vicino l´agonia del regime. Il grande traditore Dino Grandi ha già preparato il suo ordine del giorno in cui chiede che tutti poteri siano restituiti al re, in casa Ciano la figlia del duce Edda e Galeazzo stanno accordandosi con il tedesco Dollmann per essere informati sulle future prigioni di Mussolini e sulla possibile fuga in Spagna. Il re sta dando ordine a un generale dell´esercito per essere assistito durante l´ultimo colloquio con il duce. Alle sedici quaranta del pomeriggio le automobili dei gerarchi arrivano a palazzo Venezia.
Fa parte del gran salotto romano anche Claretta Petacci, l´amante di Mussolini. Attraverso l´usciere Navarra da un caffè di una viuzza vicino a palazzo Venezia manda i suoi biglietti al duce. Asvero Gravelli, il gerarca, intanto tiene informati gli uomini del salotto: ora stanno mangiando panini e bevendo aranciate. Il bar dell´hotel Excelsior è affollato da signori e signore di mezza età, che in comune hanno un modo di gestire, l´imitazione che hanno fatto per anni del dittatore, quel suo modo di guardare imperioso e maschilista di certi attori del cinematografo come Mino Doro. Non è il fascismo degli squadristi e dei manganellatori, ma dei fascisti del regime che indossano la sahariana bianca. Il vecchio giocatore d´azzardo sta giocando i suoi ultimi bluff, lascia capire ai congiurati che è pronto ad arrestarli, ma è troppo tardi. A un gesto di Mussolini il segretario del partito Scorza fa l´appello dei presenti: diciannove a favore delle dimissioni del duce, sette contrari, un astenuto. «Signori – dice Mussolini – Voi avete provocato la crisi del regime». La Roma dei salotti è subito informata, c´è chi è in contatto con i Ciano, chi con casa Savoia. Appena fuori da palazzo Venezia Ciano telefona a Isabella Colonna che ha attorno a sé Vitetti, Daieta, e altri della crème romana, c´è anche una dama di compagnia di Maria Josè, la principessa. Mussolini telefona alla Petacci: «ti dirò com´è andata, ma credo che la mia stella sia in declino». Milioni d´italiani attendono di conoscere la loro sorte.
I salotti del regime non erano granché quanto a stile e decoro, ma gli attuali di Bruno Vespa, di Berlusconi e del banchiere Draghi non sembrano meglio.