Alberto Statera, la Repubblica 10/7/2010, 10 luglio 2010
LE MILLE VITE DI FLAVIO CARBONI
«SONO meglio di Caligola, ho fatto senatore il mio asino!» sghignazzò Silvio Berlusconi quando fu eletto per la prima volta in Parlamento il suo antico compagno di scuola Romano Comincioli, chiamato in famiglia Zio Romi. SULLA soma, alla frusta di zio Romi, o alternativamente al suo zoccolo, viaggia quasi indenne da un trentennio Flavio Carboni, quel gentiluomo nativo di Torralba arrestato per l’ ennesima volta l’ altro giorno con l’ accusa di aver messo insieme una specie di P3, evoluzione post moderna della P2 del materassaio Licio Gelli. Una P3 popolata di politici, pubblici funzionari, magistrati, giornalisti, deputata a fare affari oscuri in dispregio del codice penale e a proteggere gli adepti dai rigori delle poche istituzioni repubblicane che sopravvivono. Per Berlusconi, che lo conosce assai bene da una vita per avervi intessuto molti affari, Flavio Carboni magari incarna come Romi un’ altra bestia della sua stalla, quella curata per anni dal mafioso Vittorio Mangano, l’ omicida di cui Marcello Dell’ Utri ha appena confermato l’ "eroismo". Ecco allora perché l’ intera flottiglia di stampa berlusconiana, compreso il cacciatorpediniere un po’ meno rozzo di Giuliano Ferrara, ha presentato ieri gli arrestati e gli indagati nell’ inchiesta per l’ eolico in Sardegna, come una lobby da barzelletta, una banda di sfigati "pitreisti" (nel senso di aderenti alla presunta P3), che se ordiscono operazioni politiche e affari non ne azzeccano una. Come, per la verità, quasi sempre capita all’ uomo di Torralba, che non chiameremo "faccendiere" visto che incredibilmente ha vinto alcune cause con chi lo ha definito così. L’ eolico in Sardegna? Al palo. Il sottosegretario Cosentino, accusato di camorra, presidente della regione Campania? Sconfitto. La Corte Costituzionale convertita pro Lodo Alfano? Manco a parlarne. "Pitreisti" sfigati, dunque, che non riescono mai a farne una giusta rispetto ai loro obiettivi. Una tarda copia della teoria della "bocciofila", che si tentò di far passare per le gesta di Licio Gelli, Umberto Ortolani e Luigi Bisignani, l’ ormai antico giovanotto che fu reclutatore della P2 di Gelli e postino del Tangentone Enimont verso la banca vaticana dello Ior. Oggi l’ ex giovane Bisignani risponde se cercato da tipi come Angelo Balducci al centralino di Palazzo Chigi, ed è pars magna di fatto dello staff del sottosegretario Gianni Letta. Forse prossimamente anche proprietario con la sua compagna Daniela Santanchè e con uno stampatore del «Giornale» della famiglia Berlusconi di cui la signora ha già acquisito l’ esclusiva pubblicitaria. Il nostro Giuliano Ferrara "bocciofilo" non ignora, del resto, la qualità un po’ asinina dei comitati d’ affari che fioriscono continuamente all’ ombra del capo declinante. Tanto più che la sua testata è significativamente partecipata dal cagliaritano Sergio Zuncheddu, imprenditore edile che da anni cerca di vendere i suoi immobili alla Regione, fatto fuori Renato Soru, governata dal figlio del commercialista del Capo, Ugo Cappellacci (indagato con Carboni) e portato a corte proprio da zio Romi e dal suo sodale di Torralba. Ma la storia di Flavio Carboni, intrecciata con quella di tutti gli scandali che hanno percorso il paese in un trentennio, nessuno può ridurla a quella del "pitreista" sfigato. Perché nessuno più di lui è intrinseco all’ album di famiglia, non tanto dell’ asino Romi, ma proprio del berlusconismo. Correvano i primi anni Ottanta e l’ "imprenditore" di Torralba percorreva la Costa Smeralda infoiato all’ acquisto di terreni per conto suo, ma soprattutto di Berlusconi. Fu lui che comprò quelli destinati alla mitica "Olbia 2", che Berlusconi non riuscì mai a realizzare (ma c’ è sempre tempo per chi camperà oltre il secolo). Fu lui che, conquistandolo con i misteri della grotta sottomarina compresa nella proprietà dove pare oggi possano approdare anche i sottomarini, cedette al Capo Villa Certosa. Una villa che, ben prima degli interventi in stile Billionaire dove il figlio di Flavio, Marco Andrea, ha poi impiantato business con socio nientemeno che Lele Mora, Veronica considerò un orrido tempio del kitsch. Che l’ uomo, piccolo, verboso, umilmente arrogante, curasse in Costa gli investimenti della malavita romana, della Banda della Magliana e forse di Pippo Calò, il cassiere della mafia, che lui dice di aver conosciuto con lo pseudonimo di Mario Aglialoro, lo dicevano tutti. Lo sapeva persino il sottoscritto che ai tempi dirigeva il quotidiano «La Nuova Sardegna», nel cui capitale egli era riuscito persino ad ottenere una partecipazione azionaria grazie alla simpatia di Carlo Caracciolo. Era ante litteram, il puro coté berlusconiano odierno. la storia stessa del berlusconismo che si rispecchia in quella del piccolo massone della provincia sarda assurto a snodo di affari opachi, relazioni ambigue, politica affaristica, tangenti e millanterie. E, nei sospetti, anche di peggio per l’ omicidio Calvi. Lui si presentava come «l’ uomo più capace di produrre soldi che io (lui stesso - ndr) abbia mai conosciuto». Girarne, tanti, sempre d’ incerta provenienza. Produrne, niente. Tralasceremo, per la gioia dei lettori, la vicenda che nessuno ignora della condanna di Carboni per la bancarotta dell’ Ambrosiano e l’ accusa per l’ omicidio di Roberto Calvi sotto il Ponte dei Frati neri a Londra, per la quale è appena stato assolto. Ma, conosciuto ai più il pedigree del personaggio, vorremmo girare ai teorici del "pitreismo sfigato", un piccolo interrogativo: perché mai il coordinatore nazionale del partito berlusconiano Denis Verdini deve riunire nella sua casa romana il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, i magistrati Antonio Martone e Arcibaldo Miller, con il condannato Marcello Dell’ Utri e il noto pregiudicato Flavio Carboni? Per pura amicizia? Per un afflato che il costituzionale rispetto della privacy non può e non deve violare? Come smentire quei trinariciuti giustizialisti che pensano che fossero lì per imbandire affari un pochino opachi, come sospettano i magistrati? E perché mai il governatore della Sardegna Cappellacci, ultimo vaso di coccio, si mette a finanziare con soldi pubblici un convegnotto del «Centro di studi giuridici per l’ integrazione europea, diritti e libertà», una specie di loggetta in sedicesimo aperta dal noto Flavio, personaggio che una politica civile avrebbe dovuto espellere già decenni fa dalle sue frequentazioni? Il risultatoè che persino la colonia sarda del premier è ora sull’ orlo della crisi di nervi per colpa o merito di Flavio. Il buon Cappellacci, seguendo le indicazioni della casa, proprio via Carboni era andato sul "banchiere" toscano Denis Verdini, trascurando un po’ zio Romi. Il quale se l’ è presa ed è andato invece a piangere nelle braccia di Beppe Pisanu, ex democristiano della Banda dei Quattro di Zaccagnini, oggi presidente dell’ Antimafia, pidiellino ultimamente non proprio tenero col berlusconismo. Così anche un vecchio arnese degli scandali nazionali come Flavio Carboni, tra molti asini e pochi cavalli di razza, detta legge nella fattoria degli animali berlusconiana.