MARCO ALFIERI, La Stampa 12/7/2010, pagina 8, 12 luglio 2010
IL NORDEST RIPARTE CON INDIA E CINA
La certezza dell’incertezza. Si è risvegliato così il mitico Nordest dalla grande crisi globale, con gli ordinativi delle imprese a un mese schizzati dal 30 al 50% del totale. « un segnale tremendo perché diventa impossibile programmare strategie aziendali, ma tant’è», fanno di conto all’Unione industriale di Treviso. «La produzione internazionale nel 2009 è rimasta invariata, quella italiana è calata del 22 per cento». Basta questo per capire il salto di scala e le ricadute devastanti alla periferia dell’impero. Significa che sono cambiati gli equilibri mondiali e la divisione internazionale del lavoro. «La domanda, per come il Triveneto l’ha conosciuta negli ultimi trent’anni, semplicemente non c’è più. Bisogna andare a soddisfarla sui mercati emergenti. Dove molti dei nostri piccoli imprenditori non sono mai stati…».
Anno orribile
Viaggiando a Nord Est in queste prime settimane estive si ha come l’impressione dello strabismo. I dati macro sono ancora quelli orribili del consuntivo 2009, al netto di qualche refolo di ripartenza come il +12% nell’export, spalmato finalmente su tutti i comparti del made in Italy. Anche se andrebbe depurato dell’euro debole che droga i conti, dando magicamente l’impressione che tutto stia tornando come prima del lungo inverno recessivo. «Sarebbe un’illusione pericolosa perché i veneti sono arrivati al burrone della crisi già in forte sofferenza», ragiona Gigi Coppello, segretario della Cisl di Vicenza. Altro che Veneto Felix. Il Pil in effetti è in regressione da ormai un decennio. Nel 2000 la ricchezza prodotta superava di quasi 1.600 euro quella degli altri cittadini europei e di 2.600 quella italiana. Nel 2009 siamo oltre 400 euro sotto la media di Eurolandia (22.300 euro). La crisi dunque ha solo ingigantito i problemi, riportando il Pil ai livelli del 1998 e mettendo le Pmi nordestine di fronte a un bivio ineludibile: innovare o morire.
Sette vite
Eppure mai dare per morti i piccoli di queste lande. «Siamo come i gatti, abbiamo sette vite», ridacchia Coppello. In effetti dietro il grande freddo dei numeri qualcosa comincia a muoversi, nuove schegge competitive da cogliere. Il primo caso di ripartenza arriva proprio da Vicenza, la provincia più manifatturiera del Veneto dove l’industria vale ancora il 44% del Pil e ci lavora un addetto su due. Spiega Luca Romano, studioso del Local Area Network di Padova, che «fino a qualche anno fa in ogni provincia c’era un po’ tutto il mix produttivo». Nel Vicentino la concia, l’oro, la meccanica e il tessile. Nel Trevigiano il legno arredo, lo sport system, l’abbigliamento, la scarpa sportiva. Ognuno con il suo bel distretto e la catena locale di fornitori. «Oggi invece si sta andando verso una maggiore specializzazione». Da un lato nella vecchia concia intorno ad Arzignano, per anni campione distrettuale nelle statistiche della fondazione Edison, con la crisi sono morte la metà delle imprese, travolte dalla concorrenza cinese e dell’Est Europa. Idem nell’oro, dove le imprese sono crollate da 800 a 500 in due-tre anni. Dall’altro, intorno a Schio, Alto Vicentino, si rafforza il polo dell’automazione, del packaging e delle lavorazioni per l’automotive tedesco, soprattutto Bmw.
Meccatronica
La parolina magica è meccatronica: l’unione tra la vecchia meccanica nata nelle stalle delle case coloniche della campagna veneta e l’elettronica di ultimo grido. Del nuovo metadistretto fanno già parte 200 imprese, distillato di quel corpo sterminato metalmeccanico fatto da 6 mila aziende con 70 mila dipendenti e 17 miliardi di fatturato (35% all’estero), che ha ormai rotto il vecchio schema distrettuale. Le imprese della prima fascia stanno infatti comprando i loro competitor locali. In questo modo non hanno più problemi di concorrenza e acquisiscono massa finanziaria per internazionalizzarsi. Il processo è in corso sottopelle, se ne ha già evidenza nelle ricerche di Roberto Grandinetti, sugli indici di concentrazione industriale in cui il Veneto è davanti anche alla Lombardia. Questo permette di fidelizzare quei subfornitori locali che riescono a essere efficienti e innovativi, ma insieme svuota dall’interno lo schema distrettuale classico. «Non basta più essere vicino per diventare fornitore – prosegue Romano - se non sei innovativo, vieni saltato dalla catena di fornitura».
Nuove filiere
Un esempio viene dalla Telwin di Villaverla, periferia operosa di Vicenza. L’azienda di Antonio Spillere è leader mondiale nelle macchine saldatrici, 300 dipendenti e 60 milioni di ricavi. E’ una storia epica e ingenua insieme, la sua, come molte da queste parti. Il padre Giovanni faceva il contadino, coltivava il mais e negli Anni 50 incominciò a commerciare in fornaci per poi dedicarsi alle prime lavorazioni in metallo, conto terzi naturalmente. Oggi la Telwin fa l’85% del fatturato sui mercati extra Ue in controtendenza a un’economia locale eccessivamente legata al carro del mercato comunitario. E’ presente all’estero con proprio brand e propria distribuzione e ha creato una rete di fornitura che resta locale solo nei suoi picchi più innovativi (stampaggio e laser), mentre è stata delocalizzata nella parte di lavorazione del metallo più dozzinale. In questo modo, sotto i colpi innovativi delle tante Telwin, il corpaccione centrale di fornitura alle medie imprese nate nei distretti si sta sfrangiando riposizionando il sistema intorno a nuove filiere.
Ma il caso dell’Alto Vicentino è interessante perché in controtendenza rispetto al dato universitario regionale che è crollato di dieci punti in 6-7 anni. Nasce infatti da una gemmazione virtuosa. Da un trasferimento di conoscenza in stile Silicon Valley più che dal semplice saper fare con le mani del vecchio Nordest. Bulloni, lamiera e olio di gomito. Quando bastava il vitalismo del padroncino che, in giornata, raggiungeva con il Ducato le grandi imprese tedesche e chiudeva contratti di produzione conto terzi, magari validi per anni, realizzando componenti per auto, aerei e navi. Oggi è diverso. La ripartenza altovicentina nasce dai corsi universitari di ingegneria dell’innovazione e della meccatronica, distaccate a suo tempo da Padova. La mescolanza è fruttuosa. Ecco schegge di un Nordest diverso.
Marco Polo
A Treviso, l’esperimento di Treviso Design, o i contract nel legno-arredo del comprensorio Quartiere del Piave/Pordenone, dove ci si presenta all’estero vendendo un modo di abitare più che una semplice cucina, nascono anche dal trasferimento nella Marca del dipartimento di Arte e design dallo Iuav di Venezia. Nel frattempo in Laguna arriva settimanalmente la prima nave porta container diretta da Shanghai; 400-500 ricercatori della Ca’ Foscari lavorano stabilmente in Cina, ripercorrendo la strada aperta da Marco Polo; e l’aeroporto di Venezia è ormai il terzo scalo intercontinentale d’Italia. Ogni giorno dalle sue piste partono 4 voli a lungo raggio per il mondo. Anche chi va all’estero sta mutando pelle. Su 20 mila imprese italiane internazionalizzate 4 mila sono ancora basate in Romania. Timisoara Italia, ricordate? Migliaia di imprese nordestine invasero l’Est Europa a metà Anni Novanta per sfruttare il basso costo del lavoro. Adesso però finita la fase eroica questi Paesi stanno diventando importanti mercati di consumo, capaci di servire la domanda interna della nascente middle class. Dalla delocalizzazione all’internazionalizzazione. E’ il caso della friulana Brovedani, sbarcata in Slovacchia per seguire il colosso Bosch e oggi capace di affrancarsi dal ruolo di semplice fornitore allargando il proprio portafoglio clienti. «Anche verso i Paesi Bric, che crescono ormai tre volte l’area Ocse e ospitano il 50% della popolazione mondiale, qualcosa comincia a muoversi», spiega l’economista Giancarlo Corò. Piccoli numeri, visto che l’export verso Cina e India fa solo il 4% dell’intero paniere nordestino. «Tuttavia le merci verso Delhi sono cresciute dell’8% nei primi mesi del 2010, e quelle verso l’Asia del 16».
Fusioni aziendali
La crisi insomma atterra su un Nordest in piena morfogenesi. Mentre sta andando in crisi l’elemento genetico estensivo dell’economia distrettuale: esco dall’azienda madre e mi metto in proprio. Quel meccanismo spontaneo che ha funzionato alla grande nel trentennio d’oro dei distretti ma oggi batte in testa. E’ proprio la morfologia industriale che sta cambiando pelle. Non a caso in questi mesi si registrano più chiusure che nel resto d’Italia, restano in piedi meno ditte individuali in un Nordest che già da qualche anno ha perso il primato italiano dei lavoratori autonomi. Cresce viceversa la convinzione (dal 17 al 23%), nella terra dei campanili e dell’individualismo, che occorra creare fusioni aziendali per resistere nel mondo nuovo.
In immersione
Al di sotto del pavimento degli internazionalizzati e di chi sta provando a innovare, c’è invece il dark side di un’economia e una società veneta che sta andando pericolosamente in immersione: i recenti contratti part time nell’edilizia, mentre nel Trevigiano ci sono più appartamenti (1,1 milioni) che abitanti (900 mila), per Coppello «puzzano molto di lavoro nero». E la disoccupazione ha bruciato in un anno quasi 80 mila posti di lavoro ma senza la cassa integrazione sarebbero stati 250 mila. La selezione darwiniana fa male e costringe a stressare ogni fattore produttivo, a cominciare dalla popolazione immigrata, l’anello debole della catena. Passando per lo spettro della jobless recovery. Perché di nuova occupazione, per ora non c’è traccia nel laborioso Nordest, anzi. Su 2 posti persi nel manifatturiero solo uno viene recuperato nei servizi alla persona. Prove tecniche di autunno caldo?