Lucia Annunziata, La Stampa 10/7/2010, pagina 1, 10 luglio 2010
PARODIA DI GUERRA FREDDA
La più audace operazione messa in atto da una delle 11 spie che lavoravano da anni in Usa per i russi è stata il tentativo del ventottenne Mikhail Semenko (fluente in inglese, spagnolo e mandarino) di «stabilire contatti a Washington con think tank che ispirano la politica di Obama».
I due istituti dove ha provato a lavorare sono la New America Foundation and il Carnegie Endowment: cioè due gruppi con cui senza problemi hanno contatti tutti coloro che nel mondo, per una ragione o per l’altra, si occupano di politica estera. Se questo era il massimo cui le spie russe potevano aspirare, dopo anni di vita in America, forse avrebbero fatto meglio a entrare in una università (americana o sovietica, è lo stesso) e fare un master presso questi centri studio. Lo avrebbero ottenuto senza problemi.
La dimensione dell’ultimo capitolo della guerra di intelligence fra Washington e Mosca, chiusosi ieri con uno scambio di agenti fra le due ex potenze ex nemiche, è tutta in questo dettaglio. Nonostante l’insistito richiamo dei media a Le Carré e a Graham Greene, due narratori nelle cui mani il conflitto del dopoguerra era già stato ridotto a un cumulo di luoghi comuni, in questo ultimo round la Guerra Fredda - per citare Bbc - «è tornata in forma di farsa».
Nessuno dubita infatti che ci sia ancora una rete di spie nel mondo, che i conflitti si nutrano ancora dell’intelligence umana. Su questo piano, lo scontro fra Usa e Urss ha segnato il secolo scorso con leggendari episodi di cappa e spada. Negli Anni 30, ad esempio, i russi potevano contare su ben quattro americani che spiavano a loro favore dentro lo stesso Dipartimento di Stato, a cominciare da Alger Hiss, assistente del segretario di Stato. A ridosso della Seconda Guerra, si scoprì che per i russi lavoravano il vicesegretario del Tesoro americano, Harold Glasser, e Harry Dexter White, uno degli uomini più influenti dentro il Tesoro. Anche dopo il conflitto mondiale, la guerra nascosta fra Occidente e Urss ha scritto storie leggendarie, come quella di Rudolf Abel, nome d’arte dell’inglese William Fischer, capo di un’enorme rete di doppi agenti occidentali che lavoravano per la Russia. Fischer venne poi liberato nel 1962 scambiato con la liberazione di un agente della Cia, il pilota Francis Powers, catturato dai sovietici dopo l’abbattimento del suo aereo. Ancora negli Anni 90 la tensione Usa-Urss ha prodotto scandali come quello di Aldrich Ames, operativo della controintelligence della Cia e spia russa, colpevole di aver «bruciato» almeno un centinaio di agenti americani, in cambio di circa 3 milioni di dollari versati da Mosca.
A fronte del livello in cui abbiamo visto svolgersi negli anni passati questa guerra fra superpotenze, la rete catturata in queste ultime settimane appare un abito tessuto e cucito con mani approssimative. Un’operazione di sapore casalingo, in cui gli undici agenti che per anni hanno vissuto in Usa sembrano non aver avuto né grandi accessi né grandi successi. Coppie medio-borghesi, professionisti di attività di intermediazione, giornalisti apertamente critici degli Usa, precari del terziario commerciale, non hanno avuto - secondo gli stessi investigatori che li hanno scoperti - molto più accesso «di quello dell’associazione scolastica dei genitori». Più che della Guerra Fredda, questo nuovo circuito sembra piuttosto figlio dell’era di Facebook, strumento ampiamente usato da tutti loro (come da tutti noi) per prendere contatti.
Ovviamente, è sempre possibile che il gruppo si riveli retroattivamente di una pericolosa efficacia. Per ora, proprio l’aspetto leggermente farsesco dell’operazione ci rivela comunque qualcosa di vero nelle relazioni fra i due ex grandi nemici del dopoguerra. Washington e Mosca hanno affrontato il problema velocemente e senza nascondere una sorta di imbarazzo reciproco. Le autorità russe, ad esempio, pur ammettendo di fatto che si trattasse di spie, hanno anche fatto notare che non hanno mai agito contro gli interessi americani, facendo appello perché Washington «dimostri l’adeguato livello di comprensione e tenga in conto le attuali buone relazioni fra Russia e America».
Comprensione cui la giustizia americana non si è sottratta condannando gli «agenti» per «non aver notificato alle autorità americane le loro attività», paradosso usato per dare al termine agente il più ampio senso possibile. Le spie dunque non sono state condannate per «spionaggio» e il Dipartimento di Stato ha avuto, probabilmente in cambio della clemenza, il rilascio di quattro prigionieri fra cui almeno uno importante, accusato di aver aiutato a scoprire Ames.
L’unica rivelazione che sembra venire da questa nuova cattura di spie ci pare dunque essere che né Russia né Usa vogliono essere disturbate da questi vecchi giochi. Le relazioni diplomatiche fra i due Paesi sono molto migliori di prima, ma sono anche attraversate da tensioni serissime. Terrorismo, petrolio, deriva islamista in Caucaso e Medioriente, sanzioni per l’Iran, espansione cinese: a fronte dei tanti temi su cui Mosca e Washington possono scontrarsi, il destino di una bella spia rossa con gli occhi verdi è (giustamente) del tutto irrilevante.