Fulvio Bufi, Corriere della Sera 11/07/2010, 11 luglio 2010
QUELLA GROTTA DELLA SIBILLA E LA DISCESA AGLI INFERI
Nell’ Odissea Omero affida a Circe il compito di indicare a Ulisse la via per raggiungere l’ Ade, l’ inferno pagano, e poter evocare l’ indovino Tiresia. E quella via, lungo una costa bassa e fitta di boschi, è la via dell’ Averno. Nel sesto canto dell’ Eneide Virgilio descrive una grotta «protetta da un nero lago e dalle tenebre dei boschi», e racconta la discesa di Enea agli inferi, dove lo guida la Sibilla. E la via che percorrono parte dall’ Averno. Il lago che guarda il golfo di Pozzuoli e respira gli odori della Solfatara era considerato l’ ingresso dell’ Oltretomba, ed era frequentato da eroi mitici e leggendari. Nella sua grotta invasa dai fumi, racconta la grecista Eva Cantarella, «la Sibilla, la sacerdotessa di Apollo, cadeva in trance e in esametri greci pronunciava le sue profezie». Come può esserci finito il killer cocainomane Peppe Setola in un posto così? Cosa può esserci in comune tra un luogo che conserva millenni di storia e leggende e il più pazzo e sanguinario tra i sanguinari camorristi casalesi? Nella sua «Storia di Pozzuoli e Contorni», del 1826, Lorenzo Palatino scrive che «al fianco meridionale dell’ Averno evvi una grotta cavata nel monte lunga 260 passi, nominata per antica tradizione della Sibilla. Questa grotta era di malagevole entrata, dovendosi andar curvo per quindici e più passi: ma ora vi si va comodamente per un cammino umido e tenebroso». Setola al massimo strusciava nei cunicoli, scappava, steso a pancia in giù su uno skateboard, attraverso le fogne, come quella volta che sfuggì ai carabinieri a Trentola Ducenta, ma tre giorni dopo lo presero lo stesso. Nulla poteva essere più lontano dal suo mondo, di luoghi come il lago d’ Averno e la grotta della Sibilla, anzi, la pseudogrotta, perché la vera pare sia quella di Cuma, non lontana ma comunque da un’ altra parte. E però il mito si chiama così proprio perché non è fatto solo di cose reali, e non si può indagare nella leggenda. Non in a quella secondo la quale l’ Averno prese questo nome perché, formatosi sul cratere di un vulcano spento da quattromila anni, le sue acque emettevano fumi capaci di uccidere qualunque uccello osasse volarci sopra, e in greco aornon significa «luogo senza uccelli». Ma ora non è più così. Gli inferi non fumano più e dal mare si allungano i gabbiani e le folaghe a cercare pesci e rane. Gli alberi resistono, lecci, salici, pini marittimi, e le grotte intorno al lago resistono da secoli ai singhiozzi del bradisismo, anche se le più profonde ormai sono sempre invase dall’ acqua. Prima di finire in mano ai Casalesi, il colpo peggiore l’ Averno l’ aveva avuto dalla natura. Forse oltre cinque secoli fa era anche più vasto degli attuali 55 ettari, o più profondo di oggi, che è al massimo 34 metri ma in alcuni punti si ferma a dieci. Ma nel 1538 il Monte Nuovo, che si formò in cinque giorni, sconvolse quei luoghi, distrusse villaggi e trasformò in parte lo scenario dei Campi Flegrei. Se il Lago d’ Averno ha resistito allora, resisterà pure all’ assalto dei Casalesi. Anche perché è vero che Gennaro Cardillo lo acquisì nel 1991 alla sua società Country Club versando un miliardo e duecento milioni di lire agli eredi della famiglia Pollio, nobili che nel 1750 ebbero il lago in consegna dai Borbone grazie a un decreto regio. Ma è vero anche che da allora è nata una vertenza legale tra l’ imprenditore e lo Stato per stabilire chi sia il vero proprietario dell’ Averno. Il ministero dei Beni culturali si fece avanti rivendicando il diritto di prelazione, e chiedendo al Tesoro il denaro per provvedere all’ acquisto (cosa che però non ha mai fatto). Nello stesso tempo l’ allora ministro della Marina mercantile, Pacchiano, sottopose l’ area a vincolo. Si sarebbe arrivati al Duemila per la prima sentenza, emessa dal Tribunale delle Acque, che decretava il lago proprietà demaniale, verdetto ribadito in appello nel 2005. Ma Cardillo continuava a esserne di fatto il proprietario. E si vantava, in un’ intervista rilasciata qualche anno fa al Mattino, di aver «salvato l’ Averno dal degrado, ripulito la foce ostruita, salvaguardato le sue acque». Anche dopo la sentenza della Cassazione che nel maggio del 2008 ha confermato quanto stabilito dal Tribunale delle Acque: «Io continuo a dire che siamo noi i legittimi proprietari - insisteva Cardillo -. E sono convinto che la vicenda non sia affatto conclusa». Infatti ci mancava ancora il sequestro.
Fulvio Bufi