Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  luglio 09 Venerdì calendario

ABRAMOVICH. SFIDA A CHI ABBASSA LO SGUARDO PER PRIMO


Quel lunedì 31 maggio erano appena suonate le 17, il momento in cui gli altoparlanti del Moma di New York segnalano al pubblico per la seconda e ultima volta che la giornata di uno dei musei più importanti al mondo s’è conclusa e che è tempo di uscire. In quel momento Marina Abramovich, l’artista serba che da trent’anni infiamma le cronache dell’arte internazionale, arrivata all’ultimo giorno e all’ultimo minuto di una performance che s’era iniziata il 6 marzo e che era stata forse la più devastante di una carriera pur eccezionale quanto all’ardire con cui lei ha giostrato ogni volta il suo corpo e la sua mente, ha sorriso e s’è alzata in piedi.
Il pubblico che la circondava tutt’attorno, ma anche quello che dai balconi dei piani soprastanti si affacciava sullo spazio dove la Abramovich era stata come drammaticamente accampata per quasi tre mesi, è esploso in un applauso durato venti minuti. Venti minuti di ammirazione ma anche di liberazione da una tensione che s’era fatta insopportabile. Molti piangevano, segnati com’erano dall’aver assistitito a uno sforzo umano e a una testimonianza artistica da brividi.

Ferma immobile dentro al museo
Dal 6 marzo e fino a quel 31 maggio, tutti i giorni eccezion fatta per i martedì, la Abramovich s’era seduta poco dopo le 10 e per sette ore di fila su una sedia quanto di più scarna che stava al centro dell’atrio del Moma (eccezion fatta il venerdì, quando le ore diventavano dieci). Da quella sedia non si scostava mai un solo minuto, né in quelle sette ore di fila diceva una parola o faceva un gesto o nient’altro, e mentre su un’altra sedia che le stava di fronte poteva sedersi chiunque del pubblico e restarvi quanto tempo volesse. Lei da una parte, chiunque altro del pubblico dall’altra a guardarsi negli occhi. In silenzio. Tra i due solo un tavolo di legno piccolo e quadrato, che è stato poi tolto nell’ultimo mese della performance a rendere il tutto ancora più netto ed essenziale.
C’era chi restava due o tre minuti, uno è restato tutte e sette le ore. Sette ore di fila a scavarsi a vicenda con lo sguardo, il più implacabile e impudico dei bisturi di cui disponiamo noi esseri umani. In tutto e per tutto si sono sedute 1545 persone. Alcuni di loro famosi, il cantante Lou Reed, Isabella Rossellini, l’attrice Marisa Tomei, il cantante leader dei Rem, Patti Smith, Sharon Stone. Immobili, in silenzio, gli occhi puntati negli occhi a modulare domande che non potevano essere fatte con le parole, in molti che cominciavano a lacrimare, 1545 volti che raccontavano ogni volta uno strazio e un destino.
Giorno dopo giorno e minuto dopo minuto, a sette o otto metri di distanza dalla performance s’era appostato un cecchino che guardava e teneva come un fucile puntato su ciascuno del pubblico che si sedesse. Quel fucile era la sua macchina fotografica. Spiava, puntava, metteva a fuoco usando come centro del bersaglio l’occhio di chi stava seduto e sparava la sua fucilata, ossia la sua fotografia. Quel cecchino si chiama Marco Anelli. un fotografo romano poco più che quarantenne, uno dei migliori della sua generazione, uno che nel suo lavoro ormai più che decennale è un asceta tanto quanto lo è la Abramovich nel suo. Quando ha saputo che Marco è un mio amico Paolo Morello, il gran collezionista e il gran studioso della fotografia italiana del secondo dopoguerra, s’è raccomandato che glielo facessi conoscere. 1545 persone, altrettante fucilate, altrettanti volti che la macchina fotografica di Anelli ha catturato per sempre. Pochi giorni fa, quando era appena tornato da New York, me li ha mostrati, raggrumati nel suo computer. Fra pochi mesi un editore americano ne trarrà un libro, e sarà anch’esso un libro da brividi.
Quelli che si mettevano seduti di fronte alla Abramovich avevano iniziato a mettersi in fila davanti al Moma alla notte. All’apertura del museo, alle dieci del mattino, scattavano di corsa a percorrere quei pochi metri e quei pochi scalini che li portavano nell’atrio dove la Abramovich era già seduta in attesa. Vestita di blu tutti i giorni del mese di marzo, di rosso in aprile, di bianco in maggio. Quelli della fila aspettavano chi tre ore chi quattro prima di arrivare a sedersi innanzi alla divina muta. Prima di farlo, la Stone ha mosso la testa a modo di un saluto e di un rispetto. Uno scemo ha tirato su la maglietta tanto per far vedere quanto era scemo. Qualche giovane artista americano ha interpretato la situazione come una sorta di sfida con quell’artista celebratissima.

Ipnotizzati dal confronto
I più erano ipnotizzati, straziati da quel confronto e da quella conversazione di sguardi. Più di una volta la stessa Abramovich è scoppiata in lacrime. A pochi giorni dalla fine della performance Anelli s’è seduto a sua volta. Tale era l’intensità e l’emozione della situazione che ha creduto d’essere stato lì per dieci minuti e a quel punto s’è alzato e se n’è andato. Era stato in tutto un minuto e 58 secondi, i più lunghi della sua vita. L’ultimo a sedersi è stato il curatore della esibizione Klaus Bisenbach. Per tutta la durata della performance il sito del Moma offriva minuto per minuto le immagini di quanto stava accadendo. Nei tre mesi dal 6 marzo al 31 maggio ha avuto 600mila visitatori.