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 2010  luglio 15 Giovedì calendario

FEDERALISMO

Dopo circa 15 anni di promesse il federalismo fiscale sta lentamente decollando. La relativa legge, entrata in vigore il 5 maggio 2009, prevedeva che entro il 30 giugno di quest’anno il governo trasmettesse al Parlamento una relazione sul quadro generale di finanziamento degli enti territoriali. A sua volta, la relazione del governo si sarebbe dovuta basare su un’ampia ricostruzione dello stato della finanza pubblica, affidata al lavoro della Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale. Ebbene, sia la relazione del governo sia la relazione della commissione tecnica, guidata dal professor
Luca Antonini, sono state completate e trasmesse nei tempi previsti. Ora il Parlamento e il Paese hanno un primo quadro sistematico e relativamente aggiornato (bilanci 2008) dello stato dei conti pubblici a tutti i livelli: Stato centrale, regioni, province, comuni. Che cosa emerge da questo quadro?
L’analisi del governo, in cui spesso si avverte la penna del ministro Giulio Tremonti, fornisce una ricostruzione impietosa delle ragioni che hanno condotto al dissesto della finanza pubblica, ragioni che possono essere riassunte così: dal 1971 a oggi una serie di provvedimenti legislativi, dalla riforma tributaria del 1971 (riforma Visentini) a quella del titolo V della Costituzione del 2001 (il federalismo del centrosinistra), passando attraverso i decreti Stammati e le leggi Bassanini, hanno sistematicamente allargato la forbice fra le competenze (sempre più ampie) assegnate agli enti territoriali in materia di spesa e le competenze (sempre più ristrette) a essi sottratte in materia di riscossione. Di qui la crescente irresponsabilità finanziaria di regioni, province e comuni, indotti a spendere sempre di più proprio perché non a essi, bensì allo Stato centrale, era demandata la funzione di spremere i cittadini con sempre maggiori imposte, tasse, contributi ed entrate di vario genere.
La ricostruzione del governo è abbastanza accurata, anche se, comprensibilmente, glissa sull’abolizione dell’Ici sulla prima casa, un provvedimento demagogico e antifederalista, che come tale si inserisce pienamente nel trend irresponsabilista giustamente denunciato dalla relazione governativa: forse su questo punto un po’ di autocritica non sarebbe stata fuori luogo, visto che l’abolizione totale dell’Ici sulla prima casa è stata un cavallo di battaglia del governo stesso.
Ma la parte forse più utile della relazione governativa sta negli allegati, che contengono una prima raffica di dati, in particolare quelli sull’esplosione delle pensioni di invalidità (allegato 1) e le numerosissime tabelle della relazione Antonini (allegato 2). Da essi è possibile farsi una prima idea delle storture della finanza pubblica italiana, ma soprattutto emerge chiaramente che una base contabile unitaria, coerente, condivisa non esiste ancora. Nonostante gli sforzi compiuti nei mesi scorsi dalla commissione paritetica (Copaff) per ottenere dati contabili aggiomati e uniformi, la relazione mostra chiaramente l’esistenza di due problemi irrisolti:
a) nel caso dei trasferimenti i dati di uscita degli enti eroganti e quelli di entrata degli enti riceventi non sono tra loro compatibili;
b) gli schemi di suddivisione della spesa per funzioni sono interpretati in modo difforme da ente a ente, rendendo difficilissime le comparazioni.
Non so quanto tempo ci vorrà per risolvere i due problemi precedenti, ma è un grande merito della commissione Antonini averli posti all’ordine del giorno e avere messo a punto la base di dati più uniforme e aggiornata possibile. Quando il lavoro sarà completato, e vi sarà accordo sul modo di calcolare i costi standard, il federalismo fiscale potrà cominciare, pazientemente, a rimuovere i grandi squilibri territoriali dell’Italia. Che sono essenzialmente tre: il parassitismo, l’evasione fiscale, gli sprechi.
Un modo per farci un’idea di quanto sono grandi questi tre squilibri è calcolare quante risorse in più o in meno avrebbero i vari territori se la spesa pubblica pro capite, l’evasione fiscale e l’inefficienza nell’erogazione dei servizi pubblici fossero uniformi in tutta Italia. I risultati sono impressionanti: il Nord disporrebbe ogni anno di 50 miliardi in più (circa tre Finanziarie), di cui 12 per premiare la sua parsimonia (bassa spesa pubblica pro capite), 18 per premiare la sua minore evasione fiscale, 20 per premiare la sua maggiore efficienza. Simmetricamente il resto del Paese dovrebbe cedere al Nord la medesima somma.
Ma quali zone del Paese, in particolare, risultano in debito con il Nord? Non le regioni rosse, che in un caso fanno parte del Nord (l’Emilia-Romagna) e per il resto sono complessivamente in pareggio, con la Toscana e le Marche in leggero attivo e l’Umbria in passivo. I grandi debitori nei confronti del Nord sono tutte le regioni del Centro-Sud, dal Lazio in giù, e in special modo la Calabria, la Basilicata nonché le due regioni a statuto speciale, Sicilia e Sardegna. Il debito di queste quattro regioni si aggira intorno al 20 percento del pil da esse prodotto per il mercato (pil market), mentre Abruzzo, Puglia e Lazio restano sotto l’8 per cento.
Contrariamente a un’opinione molto diffusa, tuttavia, la vera anomalia del Mezzogiorno non è l’eccesso di spesa pubblica, che indubbiamente esiste ma spiega meno di un quarto dello squilibrio complessivo (12 miliardi su 50). Le due grandi anomalie del- le regioni centromeridionali sono l’intensità dell’evasione fiscale (che in Calabria è all’85 per cento, contro il 12 della Lombardia) e il tasso di spreco nell’erogazione dei servizi pubblici, che in diverse regioni sfiora il 50 per cento. Se si vogliono ridurre gli squilibri territoriali, è innanzitutto su queste due grandi anomalie che si dovrebbe agire. Un compito difficile, perché la legge sul federalismo fiscale (numero 42 del 5 maggio 2009) sembra essere concepita più per ridurre la spesa pubblica prò capite che per combattere l’evasione fiscale e gli sprechi. Ma un compito non impossibile, perché la maggior parte dei decreti delegati deve ancora essere varata.