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 2010  luglio 08 Giovedì calendario

«IO TRADITO DA BONOLIS». CESARE LANZA A RUOTA LIBERA


«Secondo il mio amico Agostino Saccà, io mi sto preparando a morire... Uomo di rara finezza. Saccà, ingiustamente liquidato come vassallo di Berlusconi». Si prepara a morire Cesare Lanza, affacciato alla terrazza di casa, una delle più belle di Roma, da cui spiccare il volo verso qualunque direzione nelle giornate di vento, il profumo della bougainville, non fosse che il corpo, malinconie sparse e la partita di poker programmata per la sera, lo tengono a terra. Si presenta nella sua definitiva versione della buddità fatta uomo. Morituro e beato tra le donne, moglie, figlio, due cagne, domestiche e tartarughe, vere e finte.
Ha lucidato i due labrador per le foto, non se stesso, fiero della sua coltivata trasandatezza. Il suo eroe è il tenente Colombo, genio e straccione. «Sono andato all’appuntamento da un ambasciatore importante con queste scarpe sdrucite. Le porto da un anno, ininterrottamente».
L’ultima volta l’avevo incontrato negli studi de La talpa, dentro un container che discuteva con Paola Perego su quante tarantole dovessero transitare prima sulle tette di Karina e poi sul pube di Frank Trentalance, il pornoattore. «Ho avuto un infartuccio un mese fa, ci stavo lasciando la pelle», ci fece sapere Cesarone con la leggerezza di uno che racconta la puntura di un calabrone, mentre, l’occhio semichiuso dell’animale sazio, versione Dottor Cyclops, controllava le sue vittime miniaturizzate nella bolla di vetro, gli zulù che diventavano carne da share al guinzaglio della Barale. « la corruzione dell’innocenza», esultava Cesarone, mentre la gigantesca tarantola passeggiava sulle tette della piagnucolante Karina: «Se mi punge, devo tornare dal chirurgo». E tutti, io, Lanza e il pubblico, lì a sperare che la tetta esplodesse in diretta.

Fa colpo, ma poi mica tanto, che sia uno come lui a baloccarsi con il pensiero della morte. Sono i grandi dissipatori al crepuscolo a misurare meglio di ogni altro quanto sia crudele l’addio alle armi. Incursore con il gusto dell’azzardo («Lo imporrei come materia a scuola, l’azzardo, perché insegna a vincere e a perdere. Darei ai ragazzi cento caramelle e direi "adesso ve le giocate"») e peccatore confesso, l’uomo che nel suo volume di memorie si è ribattezzato "il Lanzachenecco", mercenario al servizio di tutte le bandiere ma, ogni volta, con il puntiglio della fedeltà. Già enfant prodige del giornalismo italiano, quando era ancora Cesaretto e non Cesarone, il più giovane direttore prima al Secolo XIX e poi al Corriere d’In formazione, editore suicida, scrittore, autore, libertino e maestro di chemin de fer. Una vita spericolata, anche quando perverte il suo ingegno al servizio del trash televisivo che più trash non si può. Eminenza grigia e anche un po’ nera di star come Paola Perego e Paolo Bonolis. Non ha fatto testamento, ma ha disposto la colonna sonora del suo funerale. «In chiesa, se mi accettano, cosa di cui dubito, il mio lento preferito Hey Jude, all’uscita Mamma mia, gli Abba sparati a palla». Si mette a canticchiare Hey Jude, subito imitato da un centinaio di gabbiani più intonati di lui. Alla lapide ci sta pensando, indeciso tra "Ha dato al giornalismo molto di più di quanto il giornalismo non gli abbia dato" e il meno serioso "Era un uomo tutto case e famiglie". Conoscendolo, sceglierà il secondo.

«Sarà il coccolone, sarà che ho vissuto a mille all’ora, saranno le malattie, il diabete, l’ipertensione, il peso che avanza, le quindici pastiglie al giorno, ma non mi sento più l’eterno ragazzo con la valigia in mano, pronto a prendere il treno per Yuma». A 68 anni, ha una sfida in corso con Penelope, il suo vecchio labrador del cuore. « la creatura al mondo che ho amato di più, peccato sia un cane e non una donna. una gara a chi muore prima, per non soffrire troppo della perdita dell’altro. A differenza di Sandro Ferrini che, quando moriva qualche suo coetaneo della Resistenza, provava un godimento interiore ma visibile...». Penelope tace e forse acconsente, stesa nel corridoio, attenta a non sprecare energie preziose, abbastanza decisa a perdere la sfida. «Cito solo Penelope, così i miei figli e le mie mogli si amareggiano. Un po’ di crudeltà ci vuole... Ha un solo difetto. Penelope. Spazzola tutto quello che vede. Come me, mangia qualsiasi porcata. Oso sperare che, alla mia morte, si lasci morire d’inedia come prova d’amore».
Il palazzo cigola, i fantasmi si moltiplicano e Lanza fa penitenza a modo suo, profanandosi con feroce civetteria. «Ho sempre avuto il mito del mio coraggio ma, alla prima occasione seria, l’infarto, sono crollato e mi vergogno. Non tanto quando il medico all’ospedale se ne uscì con l’indimenticabile: "Se superiamo la prima mezz’ora, forse ce la facciamo", ma dopo l’intervento. Quando sono uscito in barella e ho visto su di me gli sguardi di mia moglie, del mio assistente Toni, una specie di figlio, Lucio Presta e Paola Perego, un congedo corale.
Sono scoppiato in lacrime».

Squilla il cellulare. La convocazione per il poker della sera. Le fiches numerate sono sempre pronte a casa Lanza. I compagni di tavolo, gli stessi da una vita. «Ogni tanto qualcuno muore. Come Giorgio Tosatti. S’incazzava in una maniera furibonda quando perdeva. Mi ricordo quella volta che insultò Totti. Gli urlava "Hai vinto, ma non sai giocare!"... La sera che sono uscito dall’ospedale ho giocato a poker fino alle cinque del mattino e ho vinto, forse per un riguardo nei miei confronti».
Arriva Antonietta, la seconda moglie. Bella faccia allegra. «Ho sempre amato e temuto le donne. L’avversario peggiore al tavolo da poker. Sono temerarie e curiose. Difficile bleffare con loro. M’incanta la loro crudeltà. Ho capito presto che è meglio trattarle malissimo prima che siano loro a farti a pezzi». Sulle imprese del Lanza seduttore corrono leggende. Che lui non smentisce. «Ne ho avute più di mille. Ogni tanto la notte, per addormentarmi, provo a contarle. All’epoca del Corriere d’Informazione, per mesi, se non andavo con una donna diversa ogni giorno, stavo male. Una febbre compulsiva... Poche le storie importanti, le due mogli, donne di razza, un dono del cielo e poi Lina Sotis, una passione pazzesca, il fuoco dei sensi. Una delle tre, quattro donne più belle di Milano all’epoca. Mi allontanai da lei perché non sopportavo più la quantità di vita mondana che m’infliggeva».
Si definisce un liberale estremo, generoso e scialacquatore, in piena sintonia con l’assoluto nonsenso che è la vita. «Mia madre, la persona più cinica e lucida che ho mai conosciuto, mi diceva sempre: "Non sposarti, non mettere al mondo altri infelici, non pensare al denaro, pensa solo a leggere, scrivere e studiare". Ho fatto tutto il contrario. Due mogli e cinque figli. Il risultato è che sono condannato a guadagnare, ma prima o poi morirò e questo mi salverà... I figli? Almeno un paio mi detestano, anche perché sanno di essere ricambiati. So di essere un cattivo padre, ma per quanti errori possa aver commesso arriva il momento in cui i figli dovrebbero occuparsi del padre. Questo momento non arriva...». Due maestri riconosciuti. «Antonio Ghirelli, generoso e immortale. Piero Ottone, un perverso. Di un cinismo assoluto. Entrambi spietati verso se stessi e consapevoli dei propri limiti». Uomo tutto case, famiglie e clan, molto attratto dai gorghi del Potere. «Ho amato il cardinale Giuseppe Siri, uno dei dieci geni che ho incontrato nella mia vita. Non ho mai rinnegato l’amico Bottino Craxi. Anche quando mi spinse a fare l’editore e mi ritrovai sul lastrico a 35 anni. O quando uscii disintegrato nella farsa della seconda Repubblica, schedato tra i socialisti infami. Silvio Berlusconi mi voleva a dirigere la sua Telemilano, all’epoca in cui prese Mike Bongiorno. Era già allora ambizioso e ricchissimo, un genio, ma troppo padronale. Pensai che col mio caratteraccio di allora saremmo durati poco. Oggi, se potessi parlargli, gli direi: "Tu hai tutto, perché non fai qualcosa di risolutivo per trasformare questo Paese? Perché non senti quest’ambizione?". La Massoneria mi attirava moltissimo. Rischiai grosso con la P2. Feci domanda d’iscrizione, ma dopo due o tre giorni la cosa uscì e non ho avuto l’onore di vedere il mio nome negli elenchi. Mi dispiace essere arrivato tardi. Non mi pento di aver fatto domanda, un giornalista deve mettere il capino ovunque, poi sta a lui comportarsi in maniera corretta».
Il Cesare Lanza che riflette sul nonsenso della vita è un uomo dal cuore che sanguina. I calabresi di terra come lui soffrono il tradimento degli amici più di quello delle donne.
Chiedergli in questi giorni di Paolo Bonolis è come chiedere a un lampione cosa pensa di un cane. Sembrava un sodalizio di ferro, dopo sette anni. «Non ci verrà lui al mio funerale, dopo questa intervista. Poco male. Io resto un tontolone romantico. Vedo, capisco, so, ma mi lascio fottere dai sentimenti. Da Bonolis ho avuto una delusione terribile. Mi sento ferito, ma lo assolvo per non aver compreso il fatto. un bamboccio che non si rende conto di quello che fa. Cosa vuoi dire tradire un amico, non rispettare i contratti, la parola data. Lui in scena è un genio, ma nella vita è un infelice. Un anaffettivo attorniato da grandi donne che non merita. La madre e la moglie, Sonia Bruganelli. Intelligente, complessa, degna di ispirare un grande romanzo. Senza di lei, Bonolis sarebbe franato da tempo. Senza di lui, Sonia arriverebbe assai più in alto. Paolo è un bambino immaturo, viziato, senza valori di riferimento. Quante volte mi ha baciato, dicendomi che gli ricordavo suo padre. Cose che per un calabrese come me ti entrano nel sangue. infelice anche perché vorrebbe dedicarsi a cose serie e non al divertissement puro per cui lo strapagano. Non ha la spina dorsale per fare certe scelte».

Un contratto avrebbe dovuto tenerli insieme ancora due anni. Di questi giorni la rottura.
Spiegazione ufficiale: Lanza non è adatto come autore di Ciao Darwin. «Lui mi può anche considerare rincoglionito, ma una persona per bene rispetterebbe un contratto, si renderebbe conto del danno che fa a una persona. Vivevo felicemente alla Rai e sono stati loro a cercarmi, Paolo Bonolis e Lucio Presta... C’erano state in precedenza altre situazioni strane, ma ho sempre anteposto l’amicizia a tutto. A Sanremo Bonolis era convinto che il Festival dovesse andare avanti, anche qualora Wojtyla fosse morto. Gli dissi: "Non dipende da te. Se il Papa muore, entrano i notiziari e ci staranno per un mese, indipendentemente dalla tua volontà". Bonolis è un bambino che si percepisce onnipotente. Un’altra volta, quando ci fu il rientro della bara di Nicola Calipari da Bagdad, lui non voleva interrompere il Festival. "Non esponiamoci al ridicolo", lo scongiurai. Lui niente. "Andiamo da Cattaneo, allora, ma glielo dici tu". Usciti dall’ascensore, ci troviamo di fronte Cattaneo. "Eravamo venuti a salutarla", fa lui. Una macchietta, come i suoi Totò e Alberto Sordi». Deluso anche da Lucio Presta. «Ha scelto la gallina dalle uova d’oro e ha buttato a mare l’amico. Lucio è dottor Jekyll e mister Hyde. Straordinario nel lavoro, con qualche ingenuità politica. Abbiamo avuto litigate formidabili. Non sembra un vero calabrese, non conosce il rispetto. Lo amo come un fratello minore, ma lo prenderei volentieri a calci nel didietro».

Lo aiuto a svagarsi, a sentirsi meno vulnerabile, compilando la lista delle persone da invitare al suo funerale. «I miei compagnucci del poker, tutti. La gente che stimo, come Giuliano Ferrara. Amici come Vittorio Feltri. Grandi giornalisti come Giulio Anselmi, che mi hanno dato una mano nei tempi bui. Non inviterei cortigiani come Emilio Fede o chi si sente l’ombelico del mondo come Pippo Baudo. Vorrei attorno alla mia bara tutti i grandi talenti, allora giovanissimi, che assunsi da direttore. Ferruccio de Bortoli, Gian Antonio Stella, Edoardo Raspolli, Gigi Moncalvo, un genio un po’ indisciplinato che non ha avuto la carriera che meritava. Una volta mi chiesero: "Come mai lanci tutti questi ventenni?". Risposi: "Perché spero che quando sarò vecchio e rimbambito si ricorderanno di me"».