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 2010  luglio 08 Giovedì calendario

PANATTA, MATCH BALL

Parigi 1976. Roland Garros. da poco passata l’una, escono dagli spogliatoi. Percorrono il tunnel in silenzio. Panatta è alto, biondo, elegante. Sicuro di sé. Solomon piccolo, scuro e con due enormi gambe allenate. Adriano si ferma, lo chiama davanti allo specchio. Gli mette una mano sulla spalla, indica nella parete la loro immagine riflessa: ”Hey Harold, ti sei visto? Come può battermi uno come te?”. Aveva già vinto. Sì, era il suo anno di grazia: Roma prima, l’antica Lutezia dopo, la Coppa Davis alla fine. Il Re del ”rosso” domani compie 60 anni, e fargli fare un bilancio, senza cadere nel già detto pare impossibile. Ci pensa lui. Lascia nel cassetto la sua storia scritta per esteso in un libro edito da Rizzoli, ”Più dritti che rovesci” e cerca di dare un’immagine diversa dello sportivo di cui tutti hanno memoria. Eppure continua a spostarsi i capelli con la mano sinistra. Lo faceva sul campo da gioco. Lo fa ancora oggi. Solo che adesso, nella destra, ha sempre una sigaretta.
Ricordi nella borsa?
Molti, sportivi e personali. Le vittorie di Roma e Parigi, i miei figli. Sono contento, ma non entusiasta. Ho mancato molte occasioni, volevo fare qualcosa in più e non ci sono riuscito. In fin dei conti, mi dico sempre, non facevo niente di straordinario, mettevo una palla dentro le righe.
Eppure per mandarla in onda spostavano i telegiornali.
L’affetto non mi manca. Ma il nostro è anche un paese d’invidiosi.
Paese che fino a Francesca Schiavone, un altro Panatta non l’aveva prodotto.
Oggi il tennis non è più come prima. I giocatori possono allenarsi dappertutto, possono scegliere le persone e i paesi nei quali lavorare per diventare forti. Guardate la Svezia: dopo Bjorn Borg ha due generazioni di ragazzi che fanno i golfisti. L’Inghilterra per esempio, non sa più come raccogliere i cocci. Hanno un traino come Wimbledon, ma non producono numeri uno.
giusto che la Federazione italiana abbia pagato un premio di 400 mila euro alla Schiavone dopo il milione vinto a Parigi?
Non avrebbero mai pensato di pagarlo quando hanno fatto l’accordo. Servirà da insegnamento.
Anche lei era ricco negli anni 70, c’era chi manifestava contro la partecipazione alla Coppa Davis in Cile: ”Pinochet sanguinario, Panatta milionario”.
Per carità. In quegli anni feci la più grande puttanata della mia vita, persi tutti i miei soldi.
Puttanata?
Rilevai l’azienda che mi sponsorizzava, la General Sport, ma non mi pagava da tempo. Pagai 120 milioni di stipendi arretrati, che nel 1978 erano tanti soldi. Non riuscii a risollevarla, la gente scioperava mentro io dovevo giocare, non fallì ma fu liquidata. Se l’avessi fatta fallire c’avrei perso di meno. Ma ero un’idealista. E mi distraevo nel gioco.
Quella non era colpa delle donne? Mita Medici, la Berté, era un latin lover.
Ma quale latin lover. Mi sono sposato nel ’75. Avete mai visto una mia foto o un pettegolezzo dopo quella data? A 30 anni avevo già tre figli.
Nella sua vita, dopo il tennis e la Federazione c’è stata anche la politica. E ora un programma su La7 con Antonello Piroso.
Sono contento di poter dire la mia da non catalogato. Ci sono dei politici che pensano che chi ha giocato a tennis non sia informato, o pensano che i libri li hanno letti soltanto loro. Io invece credo che l’informazione possa cambiare la vita.
Ultimo libro letto?
”Acciaio”. L’ho trovato molto duro, spigoloso. Poi Fulvio Abbate, ”Sul conformismo di sinistra”. Mi ha divertito molto.
I quotidiani, invece, li compra?
Prima tutti i giorni: il Corriere della Sera, Repubblica e il Messaggero. Non uscivo di casa fino a quando non finivo di leggerli. Oggi sono più pigro, guardo le rassegne in tv anche perché la sera vado a letto presto ma mi addormento tardi.
citato da Rino Gaetano nella canzone Nuntereggae più. Perché l’aveva stufato?
Aveva ragione, anch’io avrei scritto quella canzone, stavo tutti i giorni sui giornali. Mi ha dedicato anche Sandro trasportando e ho il rimpianto di non averlo conosciuto.
Ma non ha il rimpianto della finale di Coppa Davis. Alla fine la decisione fu quella di partire per il Sudamerica, storica partita raccontata nel film di Mimmo Calopresti, ”La maglietta rossa”.
Mimmo mi ha poi confessato che era tra quelli che andava in piazza a contestarmi. A me sembrava una grande ingiustizia non andare. Ci fu un grande dibattito dopo le manifestazioni e il Coni aspettava un’indicazione dal presidente del Consiglio, Giulio Andreotti. Alla fine mi dissero che fu Enrico Berlinguer a sciogliere l’impasse.
Come?
Avevano ricevuto una lettera dal partito comunista cileno, me lo disse il Ignazio Pirastu, il responsabile sport del Pci. Non volevano darla vinta a Pinochet nemmeno sul campo da tennis, legittimarli a livello sportivo. E noi avevamo la vittoria in tasca, bastava partire.
Come mai decideste di vestirvi di rosso, il colore dell’opposizione, dei sostenitori di Allende?
Mi venne in mente a me la mattina. Sia io che Paolo Bertolucci vestivamo Fila. Gli chiesi se aveva un completo rosso. Mi disse ”tu sei matto”. Lui era moderato, votava Malagodi.
E lei?
Io sono sempre di sinistra, ma mai comunista. Negli anni sessanta andavo a giocare nei paesi dell’est e vedevo le limitazioni dei giovani. Non potevo essere comunista perché vedevo la poca libertà che avevano, potevano andare all’estero solo per meriti sportivi e non per svago. La repressione non l’ho subita, ma mi ha segnato.
E la sua famiglia?
Mio nonno era amico di Pietro Nenni. Anche i miei erano socialisti, ma di quel socialismo lì, tanto per essere chiari. Ora mi riconosco nell’area del Pd. Perché ormai sono aree, non ci sono più i partiti.
Che cosa non sopporta della politica italiana?
Quando parlano i leghisti. Mi dà molto fastidio sentire la frase ”noi padani”. E odio le smentite.
un attacco contro Berlusconi?
Berlusconi era un’anomalia ma dopo 15 anni non lo è più. E’ come un avversario col quale si fa fatica a vincere. Perché rispecchia ciò che l’italiano medio vorrebbe essere e dà fiducia, la gente non vuol sentire sempre brutte notizie. E comunque, se la tua politica ti dà meno voti vuol dire che è sbagliata.
C’è il nostro Obama?
Sinceramente, non lo vedo. Ma non escludo che sarà un immigrato di seconda generazione. Suona il telefono, si allontana. Torna per congedarsi: ”Spero di averle dato un’altra impressione di me, che non il solito sportivo”.Non si è tennisti per sempre.