Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 08/07/2010, 8 luglio 2010
IL MITO DI CHE GUEVARA EROE DI RIVOLTE IMPOSSIBILI
Impegnato in una ricerca di studio sulla storia di Cuba, mi sono imbattuto in alcune domande che, dopo 43 anni, sembrano ancora senza risposte certe: perché Ernesto Che Guevara, il «guerrillero heroico», è morto da solo, in un paesino del Sud America, fucilato nel 1967 su ordine di generali boliviani? Cosa ci faceva in quel posto, senza i suoi uomini e senza alcuna possibilità di salvezza? Quali sono le risposte che gli storici considerano più attendibili?
Lino Intorriaco schiavonetevere@tiscali.it
Caro Intorriaco, non credo che la vita di Che Guevara rappresenti, dal punto di vista storico, un problema. Conosciamo la sua formazione, il suo ruolo decisivo negli scontri militari che precedettero il successo della rivoluzione castrista. Sappiamo che fu deluso dal rapporto opportunistico stretto da Castro con l’Unione Sovietica e che nIel 1965, durante un convegno ad Algeri sulla solidarietà afro-asiatica, pronunciò un discorso in cui denunciò i vincoli politici che l’Urss imponeva ai suoi alleati.
Abbiamo notizie, sia pure indirette, del suo tempestoso incontro con Castro al ritorno da Algeri e sappiamo che i due uomini presero di comune accordo strade diverse. Fidel sarebbe rimasto all’Avana e avrebbe continuato a governare l’isola, mentre il Che avrebbe lavorato a diffondere nei Paesi sottosviluppati il verbo della rivoluzione. La rottura ricorda per certi aspetti quella fra Stalin, deciso a realizzare il socialismo in un Paese solo, e Trotsky, profeta della rivoluzione. Ma il divorzio fu consensuale e Castro, come vedremo, si dimostrò più scaltro e prudente di Stalin.
Dopo un breve passaggio dal Congo, Che Guevara decise di cominciare dalla Colombia dove arrivò nel novembre 1966 con un piccolo gruppo composto da sedici compagni. Era convinto che nel Paese esistessero le condizioni per una grande rivoluzione contadina e che ad appiccare il fuoco della rivolta sarebbe bastata la scintilla del suo entusiasmo. Non capì che i contadini erano troppo poveri, isolati, superstiziosi e ignoranti per avere una benché minima coscienza di classe. Accolto freddamente nei villaggi, costretto a mendicare l’acqua e il cibo, braccato dalle truppe governative, il Che, dopo qualche scontro sanguinoso, cadde prigioniero e fu trasportato nella scuola di un villaggio, La Higuera, dove rimase fino a quando i suoi custodi ricevettero dalla capitale un messaggio laconico e inequivocabile: «Non vogliamo prigionieri». Fu detto ai giornalisti che era morto in combattimento, ma la stampa internazionale, dopo avere visto il suo corpo crivellato da nove colpi e ascoltato la relazione del medico legale, non tardò a capire che era stato freddamente ucciso dopo la cattura. Nessun uomo di Stato comunista, probabilmente, versò una lacrima e Castro, in particolare, dovette essere felice di non avere più al suo fianco l’uomo che lo avrebbe continuamente rimproverato di avere tradito la rivoluzione. Ma tutti, apparentemente, furono colti di sorpresa dal modo in cui nacque nel giro di pochi giorni l’indistruttibile mito del Che, bene analizzato da Ludovico Incisa di Camerana in un libro intitolato per l’appunto «I ragazzi del Che» (Corbaccio, 2007). un fenomeno che occorre affrontare con gli strumenti della sociologia e della psicologia piuttosto che con quelli dalla storia politica.
Sergio Romano