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 2010  luglio 08 Giovedì calendario

L’ANNO IN CUI IL DUCE TRADI’ SE STESSO

Nell’anno che precede lo scoppio della Seconda guerra mondiale vi fu una breve fase durante la quale esistevano tutte le condizioni perché l’Italia allentasse i suoi legami con la Germania, pesasse attentamente i propri interessi e rimettesse al centro la barra del timone. So che certi esercizi di storia ipotetica possono essere in molti casi puerili, ma l’idea struggente di un diverso futuro nazionale mi ha continuamente accompagnato durante la lettura di un libro che fu scritto da un diplomatico italiano dopo la guerra e riappare ora in una collana storica diretta da Francesco Perfetti per la Casa editrice Le Lettere sotto il titolo Mussolini e l’Europa. La politica estera fascista. Il diplomatico è Mario Luciolli, personaggio intelligente, coraggioso, brusco (ebbe rapporti tempestosi con il presidente Giovanni Gronchi quando fu il suo consigliere diplomatico al Quirinale) e incapace di tenere la lingua «a posto» se gli accadeva di ascoltare una sciocchezza o di assistere a una decisione sbagliata. Come Perfetti ricorda nella sua prefazione, l’idea del libro nacque allorché Renato Prunas, segretario generale del ministero degli Esteri, cercò di dimostrare alle grandi potenze che l’Italia aveva fatto del suo meglio per evitare il conflitto e decise di pubblicare in un Libro Verde le «prove» della sua tesi. Non appena gli fu chiesto di raccogliere il materiale che sarebbe servito a questo scopo, Luciolli osservò che sarebbe stato necessario premettere ai documenti una prefazione. Ma questa si allungò lungo la strada sino a diventare un libro che apparve con uno pseudonimo alla fine del 1945 e risultò essere esattamente l’opposto di ciò che Prunas aveva desiderato.
Il momento cruciale, quello in cui le cose sarebbero potute andare diversamente, fu il periodo tra gli accordi di Monaco del settembre 1938 e la nuova crisi cecoslovacca del marzo del 1939. Mussolini era allora, agli occhi di una buona parte della società europea, il regista degli accordi, il salvatore della pace, l’uomo che aveva messo il guinzaglio al collo di Hitler. La reputazione era esagerata ma poteva rappresentare la base per un nuova politica estera. La Francia e la Gran Bretagna riconobbero l’impero, vale a dire il nome altisonante che era stato dato alla conquista dell’Etiopia. Il Primo Ministro britannico Chamberlain venne a Roma e Mussolini lo accolse in marsina anziché in uniforme militare. La Francia mandò un nuovo ambasciatore con cui sarebbe stato possibile trattare questioni (Tunisia, Gibuti, la composizione azionaria della Società del Canale di Suez) in cui l’Italia aveva interessi legittimi. I toni della propaganda fascista restavano sguaiati e certe rivendicazioni (Nizza, Savoia, Corsica) erano del tutto irrealistiche, ma vi furono episodi in cui Mussolini sembrò sinceramente interessato amigliorare i rapporti con le due maggiori democrazie europee.
Quando Hitler trattò brutalmente il governo di Praga, distrusse lo Stato cecoslovacco e mise l’Italia di fronte a un fatto compiuto, Mussolini e il suo ministro degli Esteri Galeazzo Ciano si resero conto che la Germania stava distruggendo i «loro» accordi, quelli a cui si vantavano di avere dato un contributo determinate. Vi erano buone ragioni per una protesta e per un cambiamento d’indirizzo. Ma dopo un primo disorientamento, Ciano e Mussolini decisero che la migliore risposta allo smembramento della Cecoslovacchia era l’occupazione dell’Albania. Comincia così uno dei capitoli più assurdi e tragicamente farseschi della storia nazionale.
L’Albania era già dà parecchio tempo, a tutti gli effetti, uno Stato vassallo dell’Italia e il gesto di Mussolini, come scrive Luciolli, «era in sostanza una specie di ratto della propria moglie». Non basta. L’Albania era uno staterello feudale composto da clan, famiglie, boss locali. Anziché accompagnarlo prudentemente sulla strada della modernità, l’Italia cercò di «fascistizzarlo». In occasione della sua prima visita il segretario del partito Achille Starace «fece ai notabili albanesi che erano venuti a ossequiarlo una violenta scenata perché gli avevano teso la mano anziché salutarlo a braccio alzato». Molti gerarchi, dal canto loro, videro nell’Albania soltanto un’occasione per arricchirsi, mentre il Luogotenente del Re, per tenere buoni i nuovi sudditi, non trovò di meglio che foraggiare i notabili con i fondi neri del suo ufficio. L’Italia perdeva denaro da tutte le parti senza trarre dalla conquista alcun beneficio.
Il colpo di grazia alla politica estera italiana venne quando la Germania offrì all’Italia un trattato di alleanza, Come scrive Luciolli, il Reich non voleva un alleato, ma un partner succube che non avrebbe osato attraversargli la strada. Dopo qualche esitazione iniziale, Mussolini finì per accettare un patto che era stato pressoché interamente scritto a Berlino. Bernardo Attolico, ambasciatore d’Italia in Germania disse melanconicamente: «Non èmai buono un trattato per il quale si è accettato, senza discuterlo, il testo predisposto dall’altro contraente». Pochi mesi dopo, quando Hitler invase la Polonia, Mussolini, lamentò il fatto compiuto e disse d’essere stato ingannato. Non è vero. Era lui che aveva tradito se stesso e l’Italia.
Sergio Romano