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 2010  luglio 08 Giovedì calendario

I COLORI DEL MITO

«Fulgentes oculorum visus», una visione abbagliante: l’emozione descritta da Vitruvio si può rivivere a Palazzo Massimo, dove da qualche giorno la direttrice Rita Paris ha riaperto al pubblico le stanze affrescate della villa romana di età augustea nota come Villa della Farnesina. La visita è di quelle che non si possono perdere. Prima di tutto per la magnificenza degli affreschi, dove predominano il rosso cinabro, il giallo e le varie tinte del blu: colori preziosi che in età augustea venivano usati con dovizia dalle famiglie soprattutto nelle camere da letto. Racconta Vitruvio che in passato si faceva uso del cinabro con parsimonia, «come se si trattasse di una sostanza medicinale». E che ai suoi giorni invece «le pareti ne vengono rivestite di qua e di là, il più delle volte per intero. A questo si aggiungono la crisocolla, la porpora, il blu d’Armenia. Queste sostanze quando vengono spalmate, anche se non sono applicate artisticamente, rinviano agli occhi una vista abbagliante e a causa del loro prezzo elevato nei contratti si dispone con una clausola che esse siano a carico del committente e non dell’imprenditore». Ora questa magnificenza si dispiega allo sguardo nel nuovo allestimento che permette una visione diretta, senza più la barriera delle vetrine, ed esaltata da un sistema di illuminazione diffusa, senza ombre, che non interferisce sulla preziosità degli affreschi, permettendo di apprezzarne i colori come se fossero appena dipinti. Un esempio che molti allestitori di mostre, anche importanti, dovrebbero seguire.
L’altra novità è la disposizione degli ambienti, ridisegnata con l’intento di ricreare, per quanto possibile, la sequenza originale delle pitture. Fin dall’inizio del percorso il visitatore è guidato da pannelli che riproducono la planimetria originale della fastosa residenza costruita al tempo di Augusto lungo le sponde del Tevere all’altezza dell’attuale Accademia dei Lincei e i cui resti furono riportati alla luce nel 1878 durante i lavori per la costruzione dei muraglioni. Si comincia con il lungo affresco del criptoportico che correva lungo quella che oggi è via della Lungara e metteva in comunicazione tra loro tutti gli ambienti della villa. L’impianto decorativo, ricomposto con il disegno dell’impaginazione architettonica, propone paesaggi a campo libero e scene dionisiache. Ma la vera sorpresa arriva alla fine del corridoio, nella grande sala in cui sono ricostruiti i tre cubicula (camere da letto) e il triclinio (la sala da pranzo). Le pareti spalmate interamente di cinabro, la raffinatezza dei soffitti a stucco e dei pavimenti a mosaico, la maestria delle pitture risalenti alla fine di quello che viene chiamato il secondo stile pompeiano, ma impreziosite anche da alcuni esempi di pittura alessandrina (Alessandria era stata conquistata dai romani nel 31 a.C. e la villa pare sia stata costruita tre anni dopo, nel 28), appaiono di un lusso quasi esagerato. Tanto che gli studiosi hanno pensato, fin dal ritrovamento, che la residenza fosse stata commissionata dalla famiglia imperiale. E alla fine delle ricerche sono pressoché concordi nel ritenere che il proprietario fosse quel Marco Vipsanio Agrippa, generale amico di Augusto, che negli stessi anni aveva iniziato la costruzione del Pantheon. Dicono che avesse commissionato la villa in occasione del suo matrimonio con Claudia Marcella, figlia di Ottavia cugina del principe, e che poi vi avesse vissuto anche con Giulia, figlia di Augusto, sposata in seconde nozze. La residenza ebbe vita breve. Morto Agrippa nel 12 a.C., Giulia sposò Tiberio e si trasferì sul Palatino, ma non accettò mai di buon grado questo matrimonio tanto da arrivare a esporsi come prostituta nel Foro e perciò finire in esilio a Ventotene e infine costretta da Tiberio a suicidarsi (14 d.C.). La villa a quel punto sarebbe stata distrutta per cancellare il ricordo della principessa infelice.
Lauretta Colonnelli