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 2010  luglio 08 Giovedì calendario

2 art. ALTA TECNOLOGIA E CONSUMI LA NUOVA RIVOLUZIONE CULTURALE. (sotto Supermercato del falso) L’ immagine di Mao Tze Dong vigila ancora su piazza Tie­nammen, dall’ingresso del­la città proibita

2 art. ALTA TECNOLOGIA E CONSUMI LA NUOVA RIVOLUZIONE CULTURALE. (sotto Supermercato del falso) L’ immagine di Mao Tze Dong vigila ancora su piazza Tie­nammen, dall’ingresso del­la città proibita. La Cina immagina­ta dal Grande Timoniere invece non c’è più già da molto tempo. E quella che l’ha sostituta oggi è arrivata a un altro punto di svolta. Ancora prima dei dati macroeconomici, lo rac­contano il traffico di scooter elettri­ci che attraversa la grande piazza di Pechino, le file di Volkswagen e Toyo­ta d’importazione che superano le poche biciclette. Lo confermano le schiere di turisti e ragazzini che e­scono armeggiando tra cellulari e fo­tocamere dalla vicina fermata della metropolitana, una delle 10 linee della nuova scintillante rete della ca­pitale cinese. In una frenesia della modernità che almeno in apparen­za oscura il passato millenario. Nella capitale politica dell’impero ti­rata a lucido dopo le Olimpiadi del 2008, enorme e trafficata ma fun­zionale e moderna da fare invidia al­le nostre piccole e inefficienti me­tropoli, nella ’Manhattan d’Orien­te’ Shanghai che in questi mesi o­spita l’Expo, il passaggio della Cina da grande fabbrica proletaria del mondo a nuova enorme società di consumo è già realtà. Che ora si sta allargando al resto del Paese. Una metamorfosi che la grande cri­si globale del 2008-2009 invece di fre­nare ha favorito, con una virata del­la politica economica a sostegno del mercato interno. Anche la decisio­ne delle autorità alla vigilia dell’ulti­mo G20 di Toronto con l’avvio di u­na graduale rivalutazione dello yuan va nella stessa direzione, favorendo per la prima volta le importazioni. Il nuovo corso promette e già in par­te permette alla popolazione un be­nessere più diffuso. Dopo un ven­tennio di industrializzazione acce­lerata senza nessuna tenerezza per le condizioni di lavoro, sociali e am­bientali, dopo aver inondato il mondo di merci di bassa qualità a poco prezzo, oggi Pechino sta vi­rando decisamente verso una cre­scita del tenore di vita, la diversifi­cazione produttiva, il risparmio e­nergetico, un’urbanizzazione me­no distruttiva. Più che di buone intenzioni si tratta scelte in qualche modo obbligate. Di fronte alla caduta del commercio in­ternazionale e al calo dell’export, nel 2009 il governo ha reagito con un maxi-piano di stimolo da 480 mi­liardi di dollari, una spinta formida­bile a investimenti, opere pubbliche e consumi interni. Il Pil del Paese l’anno scorso è rallentato (si fa per di­re) all’8% ma già quest’anno è pre­visto che torni alla doppia cifra (+10,1%). Anche i rischi legati alla bolla immobiliare, secondo gli ana­­listi, sono contenuti perché a diffe­renza che in occidente la corsa al mattone non si basata sull’indebita­mento: i cinesi pagano soprattutto in contanti. Del resto i «paperoni» (milionari in dollari) nel 2009 sono aumentati del 31% e sfiorano ormai le 500mila persone, più che in Gran Bretagna o Francia. Ma la vera rivoluzione sta nell’e­spansione della classe media, sti­mata in 200 milioni di persone, e or­mai paragonabile per dimensione e stili di vita a quella europea o ame­ricana. Anche se la regia dell’econo­mia, soprattutto dei settori strategi­ci, è saldamente in mano ai dirigen­ti del partito comunista, il 90% del­le imprese è privato e c’è quindi un ampio ceto imprenditoriale e pro­fessionale a sostenere i consumi. Non a caso proprio lo scorso anno il più grande Paese esportatore del mondo è diventato anche il secon­do importatore, dopo gli Usa. Ma per reggere gli attuali tassi di sviluppo c’è bisogno di ulteriore estensione del mercato interno. Per questo le prime proteste dei lavoratori sotto­pagati delle fabbriche, gli scioperi per chiedere aumenti salariali han­no ’bucato’ la censura fino ad arri­vare nei mesi scorsi sulla stampa na­zionale e internazionale. il segna­le che il governo, in questo strano si­stema comunista e di mercato, non osteggia una rivalutazione degli sti­pendi, come dimostrano anche i contenuti aumenti del salario mini­mo stabiliti dalle autorità locali. Il nuovo corso offre alle imprese e­stere un gigantesco mercato di sboc­co. Non si viene più a delocalizzare in Cina per vendere in Occidente. Oggi si produce qui per vendere ai ci­nesi e a tutta l’enorme area di libero scambio tra Pechino e il Sud-est a­siatico. Una grande occasione anche per il Made in Italy, come spesso sot­tolineato nel corso della missione e­conomica italiana in Cina organiz­zata un mese fa da Confindustria, A­bi, Ice e dal nostro governo. I cliché sulla Cina invecchiano in fret­ta. «Per capire la forza di questo Pae­se – racconta Antonino Laspina, di­rettore del nostro Istituto per il Com­mercio estero a Pechino – bisogna ricordare che sono andati nello spa­zio e che fanno ricerca i tutti i setto­re più avanzati. Ad esempio, stanno investendo molto nel settore dell’a­viazione commerciale, hanno svi­luppato un treno veloce tutto cine­se, avanzano nel nucleare di nuova generazione con l’obiettivo di co­prire con l’atomo il 10% del fabbiso­gno energetico entro il 2020, sono attrezzatissimi nelle rinnovabili». Il Paese si sta progressivamente af­francando dalla necessità di impor­tare alta tecnologia perché le grandi imprese straniere hanno potuto in­vestire qui solo grazie all’obbligo di cedere tecnologia ai partner locali. Così in pochi anni hanno recupera­to lo svantaggio e oggi hanno, per dirne una, la più grande centrale eo­lica del mondo con 1.500 pale. Il direttore dell’Ice vede due grandi vettori dello crescita cinese: uno svi­luppo multipolare sul piano geogra­fico, con il fronte del benessere che si allarga verso il centro e l’ovest del Paese, e uno multiprodotto sul pia­no industriale. «Sempre meno ca­nottiere e sempre più tecnologia», sintetizza in una battuta. Un esem­pio è la città di Chongqin, la metro­poli nuovo polo di sviluppo (non a caso una delle tappe della missione italiana) dove nei prossimi anni si costruiranno 500 chilometri di me­tropolitana monorotaia. L’altra scelta obbligata è quella am­bientale. Nel 2015 è previsto che la popolazione urbana superi quella delle campagne. Oggi la Cina con­suma circa il doppio dell’energia del­l’occidente a parità di produzione del Pil. Il territorio ha già subìto dan­ni devastanti (si veda il box) in un ventennio di industrializzazione ac­celerata. Con il nuovo inurbamento uno sviluppo più ecocompatibile è diventato imprescindibile. E questo significa prodotti a più basso con­sumo, più sofisticati. In questo quadro la classe media non può che allargarsi ancora, nel terri­torio e verticalmente. I nuovi posti di lavoro saranno infatti meglio quali­ficati, specializzati e pagati. un’e­voluzione economica che avrà rica­dute anche sui lavoratori di basso li­vello, gli immigrati dalla campagne che finora con salari da sussistenza e nessun diritto, hanno alimentato il boom del Paese e oggi chiedono ac­cesso al dividendo della crescita, co­me testimoniano gli scioperi dei me­si scorsi. Con buona pace di Mao, la nuova rivoluzione in corso renderà un po’ più giusta la Cina grande po­tenza. I poveri di ieri potranno fare spesa nei centri commerciali. Men­tre aziende e fondi sovrani, con lo yuan rivalutato, probabilmente ver­ranno a fare shopping a casa nostra. Nicola Pini E IN CENTRO C’ IL SUPERMARKET DEL FALSO Pechino. Lo chiamano Silk market e si presenta come un supermer­cato della bigiotteria, della pelletteria e dell’abbigliamento ci­nese. Cinese? Beh, la produzione sarà anche locale, ma i marchi so­no tutti esteri, una parata di gran­di griffe internazionali copiate e vendute per quattro soldi. Benve­nuti nel paradiso della contraffa­zione e del falso, sei piani con og­getti di tutte le qualità: da copie che sembrano identiche all’originale alle più grossolane imitazioni. An­che i prezzi variano, restando co­munque ben più bassi di quelli dei prodotti autentici, venduti nei ne­gozi di lusso anche a pochi passi da qui. Siamo nel centro di Pechino, a cir­ca tre chilometri da piazza Tie­nammen, in Jianguomenwai Dajie. una delle grandi arterie della capitale, una sfilata di grat­tacieli delle multinazionali e gran­di alberghi. Di fronte le twin towers della Lg, alle spalle una zona di ambasciate. Zona molto control­lata, dunque, oltre che elegante. Di certo un posto che non passa i­nosservato, alla faccia degli impe­gni sulla lotta alla contraffazione delle autorità cinesi. Il Silk market, ha sei piani, più l’in­terrato. C’è il ristorante e la vigi­lanza all’ingresso. una delle prin­cipali attrazioni della città, con i tu­risti che sbarcano direttamente dai pullman. Entriamo. I piani alti so­no destinati all’oggettistica, quelli inferiori alla pelleteria e all’abbi­gliamento. Ed è qui che la visita si fa interessante. I diversi stand so­no appiccicati uno all’altro, come in una fiera di paese. Il potenziale cliente viene abbordato da schie­re di commessi, ragazze giovani e agguerrite. I banchi esibiscono prodotti con marchi americani ed europei, soprattutto made in Italy e griffe francesi. Le borse, ad e­sempio: a un occhio inesperto sembrano originali. Hanno tutte le etichette al loro posto e perfino il certificato di autenticità. Le singo­le rivendite sono piccole. Così quel­lo che non è esposto viene fatto scegliere sui cataloghi delle diver­se case. Ampia offerta: da Prada a Louis Vuitton, da Chanel a Giorgio Armani, da Versace a Lacoste e via griffando. Il cliente è interessato? Un fischio e qualcuno corre nelle vicinanze a prendere l’articolo che manca. Il prezzo? Trattabile. La commessa spara alto, poi è dispo­sta a scendere. E una borsa di pel­le ’firmata’ si porta via magari al 10-20% del prezzo della boutique . Nulla di nuovo si dirà, succede an­che in Italia. La curiosità sta nel fat­to che qui non si tratta di un mer­catino di periferia o di venditori a­busivi che stendono la merce in strada e scappano all’arrivo dei vi­gili. No, qui è tutto organizzato, se­lezionato, controllato. Insomma, l’industria del falso nel suo top di gamma. A prova di imitazione. Nicola Pini