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 2010  luglio 04 Domenica calendario

STORIA D’ITALIA IN 150 DATE

3 novembre 1903
Un borghese piccolo grande
Tutti si aspettano che il giovane Re affidi il governo al capo dei conservatori, Sonnino. Invece tocca di nuovo a Giolitti, che lo scandalo della Banca Romana aveva sbalzato dal potere. Vittorio Emanuele III riceve l’etichetta di «re giolittiano». I due uomini si parlano in dialetto (piemontese) e si assomigliano nei gusti e nei disgusti. Eppure, o forse proprio per questo, l’algido sovrano non subirà mai il fascino di quel tecnocrate ancora più algido di lui. Giolitti domina la scena fino alla prima guerra mondiale, intestandosi un’epoca. Sotto la sua guida cambiano l’economia e la società, ma non il costume, anzi il malcostume, che resta improntato a una corruzione diffusa. Lo stesso presidente del Consiglio vi attinge a piene mani: vince tutte le elezioni utilizzando con spregiudicatezza il peso dei prefetti, degli affaristi e delle loro clientele. Salvemini lo definisce "il ministro della malavita». Lui si difende col tipico cinismo del gestore d’uomini: «Un sarto, quando taglia un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all’abito». una delle poche frasi di Giolitti che rimangano impigliate nella memoria. «Quando ho finito di dire ciò che devo dire, ho finito anche di parlare», dichiara alla Camera. In fondo, un’altra frase celebre. Questo conservatore dalla prosa disadorna si rivela però capace di slanci nei confronti dei più disagiati. Il suo decennio politico è la storia del tentativo di uno statista liberale di portare al governo le forze popolari. Il piano fa breccia nei cattolici, ma non nei socialisti di Turati, dove viene boicottato dall’ala massimalista del partito: un matrimonio mancato che spianerà di fatto la strada al fascismo. A spingere Giolitti verso sinistra non è solo il malcelato disprezzo per i ricchi. (A un latifondista che si lamenta dello sciopero degli agrari che costringe lui, il padrone, a condurre l’aratro, il premier risponde: «La esorto a continuare, così potrà rendersi conto della fatica che fanno i suoi mezzadri e pagarli meglio».) anzitutto la sua estraneità alle famiglie politiche risorgimentali, che consideravano lo Stato nato dalle guerre d’indipendenza come un patrimonio privato da gestire in esclusiva. Nell’Italia giolittiana i ceti meno abbienti esercitano con regolarità il diritto di sciopero, acquistano una coscienza sindacale (nel 1906 nasce la Cgl, ancora senza la i) e ottengono il suffragio universale, che porta alle urne per la prima volta tre milioni di analfabeti. Il loro voto cambierà per sempre gli equilibri politici su cui il sistema di Giolitti si regge. Ma è una prerogativa dei Grandi firmare la propria condanna a morte senza aspettare che siano gli eventi a imporla.