Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 06/07/2010, 6 luglio 2010
PERCH VITTORIO EMANUELE III FIRM LE LEGGI RAZZIALI
Ascoltando le trasmissioni televisive relative alla emanazione delle leggi razziali e la dichiarazione di Vittorio Emanuele III, mi sono chiesto perché il re non si sia mai opposto a tale sciagurata aberrazione storica. In tutte le rievocazioni non è stata mai data dai conduttori tv una chiara motivazione. Può soddisfare la mia curiosità?
Leo Proietti leo.proietti@tiscali.it
Caro Proietti, se razzisti sono coloro che credono nella propria superiorità razziale, non credo che la parola si adatti a Vittorio Emanuele III. Aveva avuto alcuni collaboratori ebrei, non aveva mai dato segno di fastidio per i molti generale ebrei che erano nella forze armate del Regno ed era troppo laico e cinico per credere che alcune razze fossero meglio di altre. probabile che le ragioni della sua firma fossero diverse e che vadano piuttosto ricercate nel quadro politico italiano nel 1938. Mussolini era allora al punto più alto delle sue fortune politiche. Aveva dato un «impero» all’ Italia. Era stimato e ammirato da una parte non piccola della società europea e internazionale. A Monaco, qualche settimana dopo, avrebbe partecipato come mediatore a un incontro quadripartito che gli avrebbe permesso di attribuire a se stesso, con una certa esagerazione, il merito di avere salvato la pace. E un anno dopo, quando Hitler invase la Polonia, avrebbe avuto il buon senso, con la gioia dei suoi connazionali, di proclamare la «non belligeranza» dell’ Italia. Per il re, quindi, non era né facile né opportuno provocare in quel momento la crisi del regime. Non basta. I successi internazionali dell’ Italia avevano risvegliato gli ardori rivoluzionari della parte più ideologica, militante e repubblicana del regime fascista. Si erano alzate voci che chiedevano al capo di rompere gli indugi e affrancare il regime dai molti compromessi che Mussolini aveva concluso negli anni precedenti con la monarchia, con la Chiesa, con gli imprenditori. Le leggi razziali non furono un episodio isolato. Appartengono a una «rivoluzione culturale» con cui il regime intendeva creare finalmente l’ «uomo fascista», cugino e concorrente dell’ «homo sovieticus» che Stalin si proponeva di realizzare in Russia. Gli italiani sarebbero stati un popolo in uniforme, avrebbero coltivato le loro energie fisiche e morali, temprato i loro corpi alle durezze della guerra, cancellato dalla loro lingua quell’ esecrabile «lei» che era retaggio di dominazioni straniere. E avrebbero governato le loro colonie con la fermezza e la saggezza degli antichi romani. A coloro che gli chiedevano di regolare una volta per tutte il problema della monarchia, Mussolini aveva dato una prima risposta indiretta creando la dignità di maresciallo dell’ Impero e decidendo che la carica sarebbe stata ricoperta da due persone: il Duce del fascismo e il re imperatore. Vittorio Emanuele vide in quella iniziativa l’ avvento di una Diarchia e l’ inizio di un processo che si sarebbe concluso con l’ uscita dei Savoia dalla storia nazionale. Firmò le leggi razziali perché un rifiuto avrebbe umiliato Mussolini, messo in discussione l’ autorità del capo del governo, offerto al fascismo radicale l’ occasione per chiedere al Duce una nuova e decisiva prova di forza. Ma non lo avrebbe fatto, probabilmente, se non fosse stato troppo cinico per ricordare che il suo bisnonno, Carlo Alberto, aveva soppresso le interdizioni israelitiche e dato agli ebrei del Regno di Sardegna la dignità della libera cittadinanza.
Sergio Romano