Antonella Olivieri, Il Sole-24 Ore 6/7/2010;, 6 luglio 2010
I BIG USA STACCANO LA VECCHIA EUROPA
L’America rimbalza, l’Europa arranca, il Giappone non riesce a uscire dalle secche. Non è un’indicazione "macro", bensì "micro", ma qualificata, quella che deriva dall’ultima indagine di R&S-Mediobanca sulle multinazionali. Un universo che comprende 374 dei maggiori gruppi industriali, dell’energia, delle tlc e delle utilities, che occupa 29 milioni di addetti e rappresenta in 28% del Pil europeo, il 20% di quello nord-americano, il 40% del giapponese.
Le multinazionali americane, dunque, con un bel colpo di reni sono riuscite a sprizzare redditività nel 2009, risollevandosi dai minimi del 2008,l’anno funestato dal fallimento Lehman e dalla crisi della finanza made in Usa. Al consuntivo di bilancio, le big d’oltre Atlantico hanno saputo trasformare in utile netto l’8,5% del fatturato, soprassando le multinazionali dell’area russoasiatica che si sono fermate al 7,8%. Ma è il confronto con le europee a essere imbarazzante. Le multinazionali del Vecchio con-tinente, infatti, dopo un’infinita rincorsa, erano riuscite finalmente a battere le concorrenti a stelle e strisce proprio l’anno prima della crisi.
Nel tunnel sono entrate, perciò, in forma migliore delle multinazionali Usa, ma a differenza di queste ultime che hanno saputo reagire prontamente, le europee sono scivolate ancora, riducendo il rapporto tra utile netto e fatturato dal 9% del 2007, al 5,8% del 2008 (stesso livello degli Usa), per terminare al 4,3% del 2009. Un peccato, perchè la crisi ha allargato il divario tra le due sponde dell’Atlantico a livelliche non hanno riscontri nell’ultimo decennio. Lo si misura anche in termini di Roe (return on equity): rispetto al 20,3% vantato dalle americane, le europee arrivano appena al 9,5% (uno scivolo senza freni dal 26,2% del 2007 e il 17,6% del 2008).
Più profitti rispetto ai ricavi non significa però che questi ultimi siano aumentati.
Anzi, la contrazione del giro d’affari è stata pesante per tutti:-18% le vendite delle multinazionali europee nel 2009, -19% le americane, -20% le giapponesi. Il primo trimestre 2010 (si veda tabella) ha segnato peraltro, con qualche eccezione, progressi in termini di ricavi e utili, ma si tratta di dati da prendere con le pinze perchè il confronto è col primo scorcio, depresso, del 2009.
Meno reattive, ma più grandi. Le multinazionali europee conservano il primato delle dimensioni rispetto alle società basate nel Nord America: 49 miliardi la taglia media delle prime in termini di totale dell’attivo contro i 32 miliardi delle americane.
Oltre tutto, in questo caso, sono state le big del Vecchio continente a "staccare" le altre: dal 1989 la crescita reale, al netto cioè dell’inflazione, è stata del 48,9% contro il 32,7% delle multinazionali nord-americane. Persino nel settore petrolifero: 96 miliardi il totale dell’attivo medio delle europee, 84 quello delle statunitensi. Una spiegazione viene dalle mega-fusioni: 96 operazioni dal ’99 a oggi, che hanno coinvolto attivi per 2.630 miliardi in Europa e per 1.880 miliardi nel Nord-America.
I mastodonti europei restano comunque giganti dai piedi d’argilla, evidenziando una maggiore fragilità finanziaria. Il rapporto tra mezzi propri tangibili e debiti finanziari è ovunque in marcato deterioramento, ma per le multinazionali del Vecchio continente il rapporto è scivolato nel 2009 al 60%, circa la metà del livello Usa-Giappone.
A livello settoriale, è il comparto petrolifero ad avere conquistato la scena nell’arco degli ultimi dieci anni. Oggi, su entrambe le sponde dell’Atlantico, rappresenta circa un terzo del fatturato complessivo delle multinazionali, scalzando per giro d’affari la meccanica che prima era leader.Effetto dell’impennata dell’oro nero che però non ha avuto ricadute positive sull’occupazione, dal momento che negli ultimi dieci anni il numero degli addetti è addirittura calato del 7,7%, in controtendenza con l’industria manifatturiera che invece ha aumentato gli organici del 9%. Risultato: il valore aggiunto per dipendente è aumentato del 195% (contro il 22% dell’industria) e la redditività è salita alle stelle, con un Roe che ha viaggiato in media al 25,4%. Nelle economie avanzate, mentre un lavoratore dell’industria trattiene per sè, sotto forma di retribuzione, mediamente tra il 60% e il 65% della ricchezza prodotta, nel settore petrolifero si passa di poco il 20%. Tra l’altro, l’industria petrolifera è quella che spende meno di tutte in ricerca e sviluppo: solo lo 0,3% del fatturato (contro, al lato opposto, il 15,6% del farmaceutico) è destinato a questa voce.
Fatto sta che la classifica "generale" per dimensioni (ordinata per capitale investito) è comunque dominata dal petrolio, sebbene in testa si confermi Toyota, mentre Volkswagen è scesa dalla seconda alla quarta posizione sorpassata da Royal Dutch Shell e PetroChina. La vera novità è però l’ingresso a metà graduatoria di Petrobras (l’Eni brasiliana) seguita dalla farmaceutica Pfizer. Bmw e Total sono uscite dalla top ten. Classifica invariata per le tlc, con Vodafone sul gradino più alto (143 miliardi di capitale investito). Telecom Italia è ottava (67 miliardi), appena sotto France Telecom (68 miliardi) e davanti a China Mobile (55 miliardi). Nelle utilities il primato è invece dell’Enel (111 miliardi) davanti a Gdf-Suez (108 miliardi).