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 2010  luglio 06 Martedì calendario

Il risicatissimo risultato emerso nelle prime ore del mattino dalle urne, che porterà al vertice della repubblica con uno stentato 52 percento il liberale Bronislaw Komorowski, sarà, nonostante tutto, rassicurante per l’Europa la quale nel 2011 vedrà la Polonia alla presidenza di turno dell’Unione

Il risicatissimo risultato emerso nelle prime ore del mattino dalle urne, che porterà al vertice della repubblica con uno stentato 52 percento il liberale Bronislaw Komorowski, sarà, nonostante tutto, rassicurante per l’Europa la quale nel 2011 vedrà la Polonia alla presidenza di turno dell’Unione. Sarà invece meno rassicurante e più insidioso per la Polonia in quanto tale. Inutile fasciarsi gli occhi per non scorgere, fra una luce ancora scarsa, le ombre di un esito che sottolinea la spaccatura emotiva del Paese e non pone una fine chiara, netta, auspicata dallo stesso Komorowski, della «guerra polacco-polacca». La sua è stata sotto ogni aspetto una vittoria promettente. Una vittoria, fra l’altro, del partito governativo Piattaforma civica, che rilegittima e dà una copertura all’esecutivo moderato e riformatore di Donald Tusk, già ostacolato dai veti del defunto presidente Kaczynski che, con ogni probabilità, si sarebbero ripetuti a scatto omozigotico se il gemello, Jaroslaw, fosse riuscito a mantenere il sottile vantaggio strappato nel cuore della notte. Ma è pur sempre, e purtroppo, una vittoria che evoca Pirro. Jaroslaw Kaczynski non è stato sconfitto. E’ stato superato sul filo di lana per due punti, incerti fino all’ultimo. Così ha conservato e forse rafforzato, col suo quoziente altissimo, l’immagine di un combattente coriaceo mediata anche dal fatto di somigliare in tutto, nel volto, nel gesto, nella parola sciolta e popolaresca al gemello perito in aprile nel fosco cielo di Katyn. Alla moltitudine degli elettori più rustici, legati alla terra, ai miti della Polonia nazionalcattolica, assuefatti a votare la coppia dei gemelli, s’è aggiunto anche il voto di elettori travolti dall’emozione dopo la sciagura di Katyn: ai loro occhi il Kaczynski vivo è apparso, al tempo stesso, quasi la reincarnazione parlante del Kaczynski morto e sepolto tra gli eroi nazionali della cattedrale di Wavel. Un simile schieramento, alimentato dalla ferita storica che l’infausto nome di Katyn, dal massacro del 1940 a tutt’oggi, continua a tenere aperta nel corpo della Polonia, non poteva che favorire la rimonta del rivale di un candidato asciutto e privo di carisma piazzaiolo come Komorowski. Si dirà che il rivale aveva ammorbidito durante la campagna elettorale i toni solitamente aggressivi, eurofobici, ipernazionalisti; si aggiungerà che aveva cercato di rincorrere o neutralizzare, con allusioni progressiste, il voto della sinistra raccolta sotto le bandiere del partito postcomunista di Grzegorz Napieralski. Ma, a scrutinio ancora caldo, il gemello sopravvissuto ha fatto subito capire di considerare Komorowsi un vincitore effimero e se stesso un perdente solo temporaneo. Ha tirato fuori la grinta e, accennando alle elezioni politiche del prossimo anno, ha citato un personaggio leggendario, il maresciallo e padre della patria Jozef Pilsudski: «Essere sconfitti ma non cedere: questa è la vittoria». La citazione, per quanto demagogica, al limite banale, non appare tuttavia basata sul vuoto, in un Paese di tormentata identità nazionale che oggi ci rivela due anime più che mai in contrasto. Jaroslaw Kaczynski sa di avere dietro di sé metà dell’elettorato polacco, sa come toccare le corde più ancestrali e misoneistiche del proprio popolo, sa di poter usufruire la lubrificata macchina organizzativa del partito di famiglia Legge e Giustizia. Ma sa, soprattutto, di poter contare sui settori fondamentalisti della Chiesa, radunati intorno a Radio Marija, un’istituzione propagandistica xenofoba, specializzata nella caccia alle streghe, un’arma d’appoggio influentissima nella lotta politica che non ha eguali in altre nazioni cattoliche. Qui, veniamo al punto più delicato di una situazione per tanti aspetti enigmatica e indecifrabile. Da quale parte sta veramente la Chiesa, in un Paese monoreligioso come la Polonia, dove essa costituisce, anche sul piano politico e storico, l’unico potere costante che si autodetermina e non subisce traumi elettorali? Sappiamo dove stava ai tempi del cardinale e poi papa Wojtyla e della resistenza al comunismo. Ma, oggi, dove si colloca la Chiesa? Quante anime occulta? Come reagisce allo scontro fra partiti in un contesto democratico non più dominato da un partito unico e, per sua natura, anticlericale? Fino a che punto e in che modo la gerarchia cattolica, che indubbiamente non è tutta retriva, ha tenuto conto del fatto che i principali antagonisti della competizione presidenziale, contrapposti sul piano politico, si dichiarano però entrambi cattolici ferventi e praticanti? A quale cardinale fa capo l’ala più chiusa e oltranzista? A quale invece la corrente più consapevole o più favorevole al ruolo della Polonia in Europa? Fintanto che queste domande resteranno inevase, verrà a mancare, a tutte le opinioni sui dilemmi di Varsavia, l’elemento di giudizio essenziale e dirimente. Per ora dobbiamo contentarci della risposta provvisoria e minore a cui induce la cronaca. L’elezione di Komorowski ai vertici dello Stato garantisce perlomeno una promessa di relativa continuità al tentativo del premier Tusk, l’autentico vincitore della difficile gara, di dare alla Polonia lo spazio che merita nell’arena europea. La politica del consenso istituzionale sostituirà quella del veto sistematico. In questo senso il no, sia pure blando, inflitto dai polacchi a Kaczynski, appare più decisivo e quasi più degno di nota del sì altrettanto blando riscosso da Komorowski.