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 2010  luglio 06 Martedì calendario

LETTERE: LA COSTITUZIONE È IL FRUTTO DI UN TIRA E MOLLA

Caro Paolo, da tempo infinito ­lo confesso - non rileggevo la no­stra Carta fonda­mentale. L’occa­sione mi è stata data dalla scoper­ta di un interes­sante libro scritto un paio d’anni or­sono da Dino Messina, il quale ha pensato bene di ag­giungere appunto il «sacro» testo in coda a una serie di interviste raccolte sotto il tito­l o Salviamo la Costituzione italiana . Che dire se non che, a prescindere dalle opinio­ni degli illustri interpellati e solo rileggen­done i principi fondamentali collocati co­me noto all’inizio, la mia conclusione è as­solutamente opposta? Non me ne ero mai reso conto, ma il primo articolo è degno in tutto e per tutto di una nazione nella quale il marxismo imperi.«L’Italia è una Repub­blica democratica fondata sul lavoro » non richiama forse alla mente irresistibilmen­te, che so?la Germania dell’Est (democra­tica per definizione) o qualche altro Paese un tempo sottomesso all’Unione Sovieti­ca? «La sovranità appartiene al popolo...» e perché non ai «cittadini»? L’articolo 3, poi, nel secondo capoverso, spiega che « p compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che... impediscono il pieno sviluppo della persona umana» e ci mancherebbe altro, «e l’effettiva partecipazione di tutti i lavora­tori all’organizzazione politica, economi­ca e sociale del Paese »e non v’è chi non ve­da che l’ora riportata frase sarebbe stata perfetta se il vocabolo«lavoratori»non fos­se stato incluso. La suindicata partecipa­zione, infatti, non può essere che possibile a tutti e non ai soli lavoratori! Altro che se­conda parte da rivedere: il pesce, come si dice, puzza dalla testa e così la nostra Carta costituzionale. Buttiamola via!
Mauro della Porta Raffo
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Eh, quanta fretta! Pensi forse che sarebbe pos­sibile, oggi, riscrivere da cima a fondo una Co­stituzione con la litigiosa e culturalmente zuzzurellona casta che abbiamo a disposizio­ne? Non che qualcuno non l’abbia fatto: la Spagna, la Francia e ovviamente la Germa­nia. Gli Stati Uniti l’hanno fortemente corret­ta con gli Emendamenti, tutte cose che sai a menadito,caro Mauro.A ben vedere l’unica Costituzione che non è mai stata rivista o ag­giornata è quella inglese. Perché non esiste. Faccenda interessante, visto che si parla del­la nazione culla della democrazia. La nostra Carta, da qualche bello spirito definita «la più bella del mondo» (tale e quale il nostro campionato di calcio, insomma) è il risultato di un tira e molla fra le anime dei costituenti, quella comunista, quella cattolica e quella li­berale, battagliera ma poco rappresentata in termini di voti. Tutti erano però d’accordo nel farne una Costituzione assai rigida, con pesi e contrappesi tali da neutralizzare ogni velleità di supremazia di un potere sull’altro (anche se oggi, aggirando la Carta, la Magi­stratura ha assunto in pratica una suprema­zia che costituzionalmente non le spetta). I tocchi, le pennellate bolsceviche al testo furo­no barattati dal Pci in cambio della manica larga sul principio della laicità dello Stato, che infatti non ha richiami nella legge fonda­mentale. Quanto all’articolo 1,pensa che To­gliatti lo voleva così: «L’Italia è una Repubbli­ca di lavoratori». I liberali contrapposero la formula, macchinosa ma efficace, «L’Italia è una Repubblica fondata sui diritti della liber­tà e i diritti del lavoro », ma il Pci puntò i piedi. Il compromesso fra la versione comunista e quella liberale (con fin troppo evidente con­cessione a quella comunista) fu opera di Amintore Fanfani. Togliatti poi ottenne di in­filare i lavoratori ovunque se ne presentasse l’occasione,e questa è la ragione del balengo secondo comma dell’articolo 3. Però, caro Mauro, la nostra Costituzione non può dav­vero dirsi, nella sostanza, comunista. L’uni­co successo concreto Togliatti l’ottenne con l’articolo 40: «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano». Sa­peva, il Migliore, che nessun Parlamento, né allora né mai, avrebbe avuto gli attributi per farle, quelle leggi. Ebbe ragione.
Paolo Granzotto