Alberto Mattioli, La Stampa 6/7/2010, pagina 37, 6 luglio 2010
LIRICA, DALL’ESTERO UNA SANA LEZIONE DI NORMALITA’
Con la scusa del turismo,
noi italiani siamo sempre andati all’estero per vedere, in realtà, come funzionano i servizi pubblici. Anche e soprattutto i più banali. Per il masochistico piacere di girare per città servite da venti linee della metro, e magari pure con l’aria condizionata, raggiunte con treni in orario o con aerei che, o meraviglia, partono all’ora prevista per l’aeroporto previsto. Quando il ministero delle Finanze francese, con grande scialo di Liberté Fraternité Egalité sulla carta intestata, ti chiede di pagare una tassa misteriosa, non sei certo felice; ma sei meno infelice e un po’ invidioso perché sulla lettera sono indicati nome, mail, fax e telefono diretto del funzionario che segue la tua pratica. E che addirittura quando lo chiami risponde e spiega perché la tassa misteriosa non è.
Quello che sta diventando intollerabile, però, è di dover andare all’estero per vedere come si fa l’opera. Cioè quello che è, da quando è stato inventato (e inventato da noi) il nostro principale oggetto da esportazione, l’unica ragione per la quale la lingua italiana esiste ancora nel mondo, il più tipico dei nostri prodotti tipici. Anche qui, non si parla di qualità artistica (e che comunque oggi l’opera sia un’«eccellenza» italiana, per usare un termine orrendo che infatti ha grande fortuna, possono crederlo soltanto le loro eccellenze) ma, appunto, di semplice, banale, elementare organizzazione di un servizio pubblico.
Esempio? Esempio. Sabato scorso, 3 luglio, Londra. La Royal Opera House, fondi e organico simili a una nostra fondazione lirico-sinfonica, presenta due spettacoli in un giorno. Alle 12,30, Nozze di Figaro; alle 20, Salome. Sono due riprese, com’è giusto perché sono due spettacoli bellissimi e come sarebbe giusto anche se non lo fossero, perché le produzioni costano e bisogna usarle. Non c’è l’evento, il caso, la grande soirée. Ci sono due buoni direttori (oddio, meglio quello per Strauss che per Mozart), due cast internazionali discreti ma con due protagonisti che sono i migliori oggi disponibili per le rispettive parti (Erwin Schrott per Figaro e Angela Denoke per Salome) e soprattutto due regie-gioiello di David McVicar, probabilmente il maggior regista d’opera di oggi, anzi sicuramente dato che in Italia, a parte un casuale Faust importato a Trieste, nessuno l’ha mai scritturato. Il teatro è pieno sia al mattino che alla sera. Fra il pubblico, né escort in pelliccia né loggionisti isterici. C’è gente normale: magari più vecchiette alla matinée, le meravigliose vecchiette inglesi in arrivo con il trenino dai loro perfetti giardinetti di periferia (viste molte Signore in giallo, un paio di Miss Marple e una sosia - perfetta - della Regina Vittoria) e più happy few internazionali la sera, ma sempre tanti giovani, molti dei quali purtroppo in bermuda e infradito, e un sacco di turisti. Insomma, lo Stato, che paga lì come qui, garantisce a una comunità che ne sente il bisogno e che è disposta a finanziarlo un servizio che funziona con la stessa serena, affidabile, tranquilla, civile e magari migliorabile efficienza della metropolitana o degli ospedali o delle scuole. E a Parigi o Monaco o Zurigo o Berlino, prego credere, è la stessa cosa. Senza scioperi né okkupazioni né stipendi tagliati per decreto né budget che cambiano dall’oggi al domani impedendo qualsiasi programmazione seria, del resto difficile con «manager», di solito avanzi di politica e talvolta di galera, che non distinguono un basso profondo da un soprano di coloratura.
Intanto qui, nell’ex Paese del melodramma, va in scena lo sciopero. Non si capisce bene contro cosa, perché il decreto Bondi adesso è la legge Bondi e quindi sfugge che senso abbia protestare contro una legge approvata in via definitiva, per quanto piaccia, in sostanza, soltanto a Bondi. A meno che non si pensi che il Parlamento si spaventi («Oddio, il 9 alla Scala salta la prima del Barbiere di Siviglia!») e disfaccia quello che ha appena fatto. Suvvia. Però anche senza scioperi, nella regola e non nell’eccezione, i nostri teatri restano quello che sono: ridicoli. Tipo il San Carlo, «risanato» con il semplice espediente di tenerlo chiuso tre sere su quattro, che ha avuto in cartellone l’ultima recita il 19 maggio e avrà la prossima il 13 luglio, pur continuando a pagare lo stipendio a qualche centinaio di dipendenti, però quello tutti i mesi (e se un turista, e magari a Napoli d’estate ce ne sono, volesse andare all’opera? E chissenefrega...). Oppure l’Opera di Roma, che ci costa come la Scala e dove il grande evento della stagione è stata la ripresa di un Falstaff di Zeffirelli risalente al 1963, secondo un’idea del teatro d’opera da museo delle cere. O il Carlo Felice di Genova, dove per mandare via un direttore sgradito ad alcuni sindacalisti l’orchestra rifiutò di provare perché in buca «c’era freddo», poi quando arrivò il direttore gradito la temperatura improvvisamente si alzò.
Insomma, sembra paradossale, ma bisogna che in questo benedetto Paese ci si decida. Se si ritiene che ci sia bisogno di un teatro d’opera, si faccia una riforma vera, magari chiudendo nel frattempo i teatri più grotteschi e cacciando i responsabili del loro sfascio a calci nel didietro, invece di fornire loro sempre nuove poltrone dove posarlo. Per l’opera, che è così importante per l’identità, la storia, la civiltà di questa nazione, non chiediamo altro: solo un po’ di sana, quotidiana, civile normalità.