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 2010  luglio 04 Domenica calendario

GEORGE ROMERO - TORONTO

Li ha risuscitati tante volte da renderli immortali. Sempre di ritorno, sempre affamati, sempre traballanti o obliqui, oltre che arrugginiti dalla vita postuma, tarlati dall´aldilà, e sempre stupefatti o imbambolati. da oltre quarant´anni che ci riprovano, a riattecchire sulla Terra, con cicliche rentrée: sei, finora, dalla prima, epocale, di La notte dei morti viventi nel 1968 a quella, ancor fresca di zolla, dell´anno scorso, alla Mostra di Venezia, Survival of the Dead. Ogni volta, automi risvegliati ma con un orologio in corpo, che li mette al passo con i tempi. Trapassati ma mai anacronistici. «I miei zombie si aggiornano, conoscono il "dopo": sono, in questo, i primi della classe dell´ultimo commiato, i più lesti a rientrare nei ranghi della realtà, senza bisogno di onerosi corsi di recupero», scherza il loro papà dell´al di qua, George A. Romero, che a settant´anni, compiuti il 4 febbraio, ha ormai fatto degli zombie i suoi vicini di casa, almeno cinematografica, richiamandoli in vita in altri quattro film: Zombi - Dawn of the Dead nel ´78, Il giorno degli zombi nell´86, La terra dei morti viventi nel 2005, Diary of the Dead - Le cronache dei morti viventi nel 2008.
Trapiantato a Toronto da New York, dov´è nato da padre d´origine cubana e madre lituana, sposato e divorziato due volte, due figli grandi, il cineasta sarà il 12 alla Milanesiana di Elisabetta Sgarbi, dove ha già fatto tappa quattro anni fa, per leggere al Dal Verme uno scritto inedito e presentare all´Oberdan, in dialogo con Enrico Ghezzi, tre suoi classici: una bella occasione per aggiornare anche i viventi sugli attuali impegni di Romero, al lavoro a Toronto sul remake in 3D di Profondo rosso, del fratello d´emoglobina Dario Argento, e, finalmente, Diamond Dead, «storia d´un complesso zombie di rock, filiazione letale del Fantasma del palcoscenico di Brian De Palma». «L´horror, l´ho succhiato col biberon, da bambino andavo matto per i brividi, su schermo o letterari, tipo I racconti della cripta. Anche il cinema è iniziato come pratica infantile: a quattordici anni ho girato il mio primo film, in otto millimetri», racconta il regista, giaccone verde guerrigliero sulla camicia aperta, barbina bianca curatissima, radi capelli tirati fino al folto codino, occhialiscope che allargano la faccia simpatica, pronta alla risata: «Anche per questo, i miei ex-morti sono più vivi dei vivi: ogni volta che riappaiono, fanno scattare l´allarme sull´orrore sociale del momento. Nel ´68, erano la maggioranza silenziosa o, come altri vi han visto, una denuncia del Vietnam. Dieci anni dopo, erano le larve del consumismo: gli assuefatti al supermarket che tornano nel protettivo paradiso perduto. Nel decennio successivo (Il giorno degli zombi), sono l´incognita scientifica contro l´ottuso automatismo militare».
E, quattro anni dopo l´11 settembre, in La terra dei morti viventi, sono la minaccia terrorista: «Un richiamo alla sicurezza della nazione, alle sue idee di frontiera, alle discriminazioni di classe. Davanti alle emergenze sociali, l´uomo blocca la porta e raduna il suo clan. Chiuso nella sua torre di cristallo, armato fino ai denti, il personaggio di Dennis Hopper è un´inutile cariatide, che "non negozia". Si sa che il potere ci manipola. Ma il problema siamo noi, che continuiamo a farci rappresentare da gente del genere».
Anche negli ultimi due film, i mutanti sono simboli delle mutazioni storiche: «In Diary of the Dead - Le cronache dei morti viventi, sono i media a essere dissepolti e radiografati. Studenti di cinema girano in diretta, Internet diventa il solo mezzo per sapere che succede, con relativi pro e contro: la fede cieca ("se è filmato è vero") e le dubbie coorti di blog d´ogni tipo. Se Hitler vivesse oggi, avrebbe probabilmente il suo blog, ben levigato e politically correct, per far cadere ancora più devoti nella sua rete. spaventoso come si possa far credere qualsiasi cosa a chiunque con un bel sito e tante belle promesse... Senza contare che Internet, tv e media "tribalizzano" sempre più. Assistiamo a una segmentazione della società in centinaia di piccole tribù che rifiutano di condividere, di farsi "uno". Ciascuno per sé e a casa sua. Stiamo perdendo il senso dell´umanità».
Non è un caso che nella sua lunga cine-parabola dei morti viventi, siano i morti a divenire sempre più umani: « questo che denuncio nei film. Ovviamente con il massimo consentito di sequenze gore per tenere desta l´attenzione tra un sottinteso politico e l´altro. Non ho mai considerato l´horror fine a sé stesso. Il mio cinema vuole anzi essere il contrario dell´horror corrente, dove tutto è messo sottosopra per ricomporsi alla fine nell´ordine stabilito. I miei morti viventi rappresentano l´elemento perturbatore che permette di avviare una situazione nuova. Quel che m´interessa è la reazione umana davanti agli zombie. Nel confronto, purtroppo, sono gli uomini a far la parte dei cattivi, non gli zombie, che fan solo da cartina di tornasole».
A chiudere il cerchio, assisteremo, in un suo prossimo film, al capovolgimento paradossale, con un gruppo di zombie rifugiati in un casolare circondato dagli uomini? «Chissà. Mi basterebbe che i due gruppi arrivassero a un punto d´equilibrio. Se gli uomini smettessero di sparare loro addosso e farne esplodere le teste, gli zombie probabilmente smetterebbero di mangiarli. Fin dal primo film, ho iniziato a stuzzicare le contraddizioni più tenaci negli Usa d´oggi. In La notte dei morti viventi, è un nero a gestire la resistenza e la sopravvivenza degli assediati dagli zombie. Un protagonista di colore, con funzioni di leader: impensabile nel 1968, in un sistema di cinema commerciale, cioè consensuale». Un preannuncio di Obama, in anticipo di quattro decenni: «Se devo essere sincero, all´attore di colore ho dato via via più spessore perché si rivelava il migliore in una troupe raccogliticcia di interpreti improvvisati. Avevo racimolato centomila dollari con un paio d´amici, il film era nato un po´ per gioco, lo giravamo la domenica, nel tempo libero: non ci saremmo mai aspettati che sarebbe esploso al botteghino (incassando cinque milioni), diventando un film di culto. Ero rimasto anche indeciso se mantenere il finale, dove l´eroe nero è eliminato dall´imbecillità e dalla violenza umane. Ma proprio a fine riprese, nella notte in cui siamo partiti da Pittsburgh per andare a New York a sviluppare la pellicola, abbiamo appreso dell´assassinio di Martin Luther King. Immediatamente, quel finale ha trovato tutta la sua attualità sanguinosa».
Ulteriore metafora: «Continuo a scandalizzarmi davanti a un cinema senza metafore, così facili da sviluppare, sulla falsariga dei sogni e delle illusioni: è la metafora la forma del cinema». Una critica ai film di denuncia diretta, alla Michael Moore? «Siamo agli antipodi: Moore sviluppa dissertazioni, cerca risposte. Per me è più facile: sollecito riflessioni sotto le spoglie dell´horror. Non sono obbligato ad andare fino in fondo ai miei assunti, non sono costretto a terminare la frase. Racconto semplicemente quel che vado constatando nella realtà. Survival of the Dead, per esempio, è, formato isola, l´invasione Usa dell´Iraq. I militari attaccano gli zombie in quanto minaccia d´un potere costituito, emergenza d´una nuova società che vuole sostituirsi alla vecchia: anzi, alla lettera, la divora».
Non si è ancora stancato di tutte queste bocche da sfamare? «Ma è un mondo che adoro, che nessuno potrà mai togliermi. Finché ci sarà la morte, ci sarà la vita per i miei film di zombie! Dovrei anche dire: finché ci saranno i videogame. Grazie a loro, gli zombie sono stati tenuti in vita, si sono moltiplicati, diventando popolari. Non è di loro che non ne posso più, ma dei produttori. Con i loro continui no, mah, però, che alla fine mi hanno convinto a tornare indipendente. Anche gli zombie sono indipendenti, a differenza dei vampiri, più viziati, un po´ aristocratici. Gli zombie sono proletari, magari alla riscossa. Mostri di sinistra?».
I suoi zombie divorano non solo carne umana ma anche pellicola d´autore: lei è ricordato ovunque per la saga dei morti viventi, un po´ meno per altri film di qualità, come Martin, Monkey Shines o Bruiser, di gentile, felpatissima orripilanza, applaudito al Torino Film Festival e al Fantastic´Arts di Gérardmer: «Bruiser è una fiaba, più che un film del terrore. Ispirato a Les yeux sans visage del ´59 del francese Franju, è la storia d´un nessuno vessato e tradito da chi lo considera uno zero, che si risveglia e si vendica il giorno in cui si ritrova incollata alla faccia una maschera (essa pure anonima). Una parabola, orribile, ma non horror, sulla perdita di identità: problema diffusissimo negli Usa, dove i media ci impongono una faccia e un look, le magliette griffate e gli hamburger omologati. Anche se i muri si riempiono di graffiti e i corpi dei giovani si arabescano di tatuaggi e piercing, non siamo alla ventata di rivolta: è anche questa un´onda di consenso, è l´America di oggi, cui indirizzo ogni possibile lama e morso con i morti viventi».
Lui che è così amato in Europa, dove viene chiamato e omaggiato (come a Clermont-Ferrand che gli ha dedicato un programma di "morti corti", reduci d´oltretomba formato cortometraggio), non ha mai pensato di scoperchiare le tombe in Francia o in Italia? «Le mie sono storie molto americane, nascono da situazioni che ho sotto gli occhi. Non conosco abbastanza bene il vostro Paese. Certo - scoppia a ridere il regista - se i miei zombie fossero italiani, mangerebbero meglio: lascerebbero la carne umana per abbuffarsi di pizza e fettuccine!».
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