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 2010  luglio 05 Lunedì calendario

CASO TELECOM, RESA DEI CONTI TRA I PM DI MILANO

Milano Un gigante immobile, af­fogato nell’afa opprimente del­l’estate milanese. Questo sem­bra il palazzo di giustizia di corso di Porta Vittoria, in questi giorni a ridosso della pausa feriale. Ma l’apparenza inganna.Nell’atmo­sfera rarefatta dei corridoi semi­deserti, il palazzaccio marmoreo vive al suo interno uno scontro senza precedenti e dagli esiti im­prevedibili. Se ne parla a mezza voce, ma non si parla d’altro. E la parola che ricorre in tutti i com­menti è: Telecom.
Tutto,infatti,nasce dall’inchie­sta sulla compagnia telefonica e sui dossier raccolti dalla sua secu­rity . Ma l’impressione è che il ca­so Telecom sia divenuto strada facendo lo spunto per un regola­mento di conti da tempo sospesi tra le diverse anime della magi­stratura milanese, esploso nel pieno del cambio della guardia al vertice della Procura, con il nuovo capo - Edmondo Bruti Li­berati - non ancora formalmente insediato, ma già deciso a segna­re un cambio di rotta rispetto alla gestione del suo predecessore, il roccioso Manlio Minale. Diver­genze ce ne sono sempre state. Ma per la prima volta lo scontro avviene in buona parte alla luce del sole.
Breve riassunto.L’inchiesta Te­lecom- indagine quanto mai deli­cata, destinata a toccare tanto gli ambienti del potere economico che il mondo dei servizi segreti ­nasce fin dall’inizio con un’impo­stazione precisa: il vertice del­l’azienda era vittima inconsape­vole delle malefatte dell’ufficio security , guidato dall’ex carabi­niere Giuliano Tavaroli. L’inchie­sta viene affidata a tre pm: Fabio Napoleone, Stefano Civardi e Ni­cola Piacente. Un terzetto etero­geneo, con alle spalle esperienze e culture differenti, formalmente coordinato dal coordinatore del pool «pubblica amministrazio­ne », Corrado Carnevali, ma che nei fatti risponde direttamente al capo della Procura, Minale. Ma prima della fine dell’inchiesta la squadra si assottiglia: Napoleo­ne viene spedito a Sondrio, Car­nevali a Monza, Minale viene no­minato procuratore generale.
Così Civardi e Piacente si ritro­vano soli quando l’inchiesta va a sbattere contro un iceberg total­mente imprevisto: il fascicolo con le richieste di rinvio a giudi­zio finisce sul tavolo del gip Ma­riolina Panasiti, una siciliana coc­ciuta che smonta l’indagine pez­zo per pezzo. Quando si capisce che tira brutta aria, parte una ma­novra (sostenuta dai legali di Pi­relli ma anche da una parte del palazzaccio) che punta a togliere il fascicolo alla Panasiti promuo­vendola in Corte d’assise: deve intervenire con durezza Livia Po­modoro, presidente del tribuna­le, per dire che «la Panasiti non si tocca». E la gip va fino in fondo: pronuncia pochi rinvii a giudizio e una valanga di proscioglimen­ti, e rispedisce il malloppo alla Procura perché riapra l’inchie­sta. Accusa i pm di avere chiuso gli occhi davanti alle tracce che portavano ai conti esteri dei Ds, e così pure davanti alle responsabi­lità di Marco Tronchetti Provera. A quel punto accade l’impensa­bile: Bruti Liberati decide di apri­re un nuovo fascicolo, lo lascia formalmente nelle mani di Civar­di e Piacente ma mette i due pm sotto il controllo di un altro pro­curatore aggiunto, Alfredo Roble­do, moderato, nuovo capo del po­ol «pubblica amministrazione». Di fatto, i due pubblici ministeri sono commissariati. La prendo­no malissimo. Civardi fa ricorso contro le assoluzioni disposte dalla Panasiti: un testo di asprez­za surreale, il pm insulta la colle­ga accusandola di essersi basata «sulle suggestioni degli imputa­ti » senza conoscere le carte. Bru­ti Liberati non firma il ricorso. Ro­bledo nemmeno. A sorpresa, è il vecchio Minale a togliere Civardi dall’isolamento: dal suo nuovo ufficio di procuratore generale, esce dal consueto silenzio per ri­vendicare la paternità dell’intera inchiesta e delle sue modalità.
La «benedizione» di Minale vuol dire una sola cosa: l’inchie­sta non ha coinvolto Tronchetti perché, chiacchiere a parte, non c’era nessun elemento concreto che portasse in quella direzione. Ed è verosimile che le cose stesse­ro davvero così. Ma gli elementi che potevano inguaiare Tron­chetti, vennero cercati con suffi­ciente convinzione? Di fatto le sentenze della Panasiti hanno da­to fiato a chi da tempo accusava la Procura milanese di avere oc­chi di riguardo per alcuni ( poten­ziali) imputati e per alcuni studi legali. Vero o non vero? Questo, di fondo, è il tema dello scontro. Intanto i nuovi capi di Telecom hanno già fatto sapere che se il timone della Procura milanese mutasse rotta, e si andasse a fare le pulci alla gestione Tronchetti, a loro non dispiacerebbe affatto. Anzi.