MARCO ALFIERI, La Stampa 5/7/2010, pagina 8, 5 luglio 2010
TESSILE DI PRATO
«Siamo moderatamente ottimisti». Così si è espresso Pier Luigi Loro Piana, parlando delle prospettive del tessile. «I dati sull’import export dei primi 3 mesi 2010 evidenziano - ha detto l’imprenditore - una ripresa della filiera del tessile abbigliamento moda». Loro Piana, alla testa di un gruppo che fornisce cashmere e lane ha aggiunto che «gli ordini per la stagione invernale 2011 sono arrivati in ritardo, ma ora hanno confermato il trend positivo con aumenti tra il 10 e il 15% rispetto alla passata stagione. Altrettanto buone sono le prospettive per l’estivo presentato a febbraio. In questo caso gli ordini sono arrivati addirittura in anticipo».Manifattura contro manifattura. Produttori di tessuto italiani, contro confezionisti dagli occhi a mandorla. I cinesi a Prato sbarcano 20 anni fa in un settore maglieria che sta morendo per gli alti costi di manodopera.
Il nostro capitalismo porta fuori Italia le produzioni (comincia l’epopea di Timisoara, Italia), così sono loro a tenere in vita il comparto prima di buttarsi nel ricco business del Pronto moda, all’inizio dei Novanta. Sarà l’intuizione giusta: i mercati mondiali chiedono il prodotto finito, i semilavorati si spostano dove le braccia costano meno.
A Prato ci arrivano da San Donnino, periferia di Firenze, dove assemblano borse e pelletteria. Troppo care le donne toscane nel taglia e cuci a domicilio: i maglifici, in quell’embrione di globalizzazione, sono costretti a far lavorare manodopera cinese. il primo gradino. Poi risaliranno tutta la filiera fino alle confezioni in una città che ha sempre fatto dell’osmosi laburista un punto di forza congeniale all’antropologia asiatica: casa e capannone. Senza capire dove finisse una e cominciasse l’altro.
Nel frattempo, «a metà anni ”80 Prato attraversa una crisi profonda: in un anno vanno in fumo 15mila posti di lavoro», ricorda Manuele Marigolli, segretario della locale Camera del lavoro. «I cambiamenti negli stili di vita, il passaggio dal cappotto alla giacca a vento, spiazzano il laniero».
L’avvento dello sport system impone un riposizionamento produttivo: il distretto si espande all’intera gamma delle fibre tessili: dalla filatura alla nobilitazione dei tessuti. «Il sistema riparte alla grande. Esplode il benessere come non si era mai visto», s’immalinconisce sotto i suoi baffoni Marigolli. Tutti diventano imprenditori, ramo filatura. Anche i barbieri. Mentre gli operai pratesi sono i più ricchi d’Italia.
Le due manifatture, italiana e cinese, tessuti e confezioni, corrono insomma parallele per anni, finchè la congiuntura tira. L’anno spartiacque è il 2001. Le torri gemelle, l’ingresso della Cina nel Wto e poi, nel 2003, la fine dell’accordo multifibre che ammazza le produzioni europee. La crisi del tessile pratese comincia allora e si trascina fino ad oggi. E’ una spoon river impressionante: l’export che crolla in un decennio da 5 a 3 miliardi di euro. Le aziende che quasi si dimezzano. I 10mila posti di lavoro bruciati. I 3mila addetti attualmente in cassa in deroga. I 1500 che usciranno dagli ammortizzartori sociali a fine 2010 dopo i 1700 usciti nel 2009, e Prato che precipita al 70esimo posto nella qualità della vita delle province italiane.
in questo frangente che attecchisce la grande crisi dell’ultimo biennio. Da un lato una comunità cinese paludata con la tendenza a vivere di regole impenetrabili, dall’altro l’emorragia di un distretto ormai lontano dai fasti che ne fecero uno dei miti fondativi della retorica della Terza Italia.
Il resto è cronaca di questi giorni: il rischio concorrenza sul segmento delle rifinizioni attraverso le aste da fallimento. Gli imprenditori cinesi arrivano e comprano cash le tintorie, avvicinandosi alla nobilitazione del tessuto, cioè al cuore del business pratese. Secondo gli industriali locali, sono già 21 le imprese asiatiche subentrate nelle autorizzazioni agli scarichi idrici. «Sarebbe la nostra tomba», denuncia Marigolli.
Eppure «non dovremmo mescolare i livelli: un conto sono i cinesi di Prato, un altro i cinesi di Cina», si sgola Edoardo Nesi, l’imprenditore-scrittore pratese amante di Fitzgerald e Hemingway. «La crisi del nostro tessile non è dovuta alla presenza cinese in città», confermano il presidente della Camera di Commercio, Carlo Longo, e il consulente Giancarlo Maffei, gran conoscitore delle cose di Pechino.
Confondere i piani serve solo a coprire la consunzione di un sistema industriale raccontato con amara ironia proprio da Nesi in Storia della mia gente. «Imprenditori e operai di quella parte d’Italia benedetta da Dio che hanno creato la ricchezza trasformando gli stracci in buoni tessuti». Prima del globalismo e di «quell’elitismo dei nostri politici e dei nostri professori che ci hanno svenduto in Europa mentre la Cina, indisturbata, invadeva i mercati internazionali con i suoi prodotti a basso costo».
Ma a Prato la dissimulazione è di casa. Ognuno tira la coperta dove più gli conviene. Il fastidio anticinese da qualche tempo lo senti nei bar, sui taxi, persino nei blog sulla rete. «L’impatto sociale di 30-40mila cinesi che scorazzano per la città è evidente. Ci è stato scaricato addosso un peso enorme», prosegue Nesi. Cortocircuito tra flussi e luoghi, e in mezzo il territorio a fare da vaso di coccio. «Bisogna provare a dargli un’opportunità», continua Nesi. Non basta armare il pugno duro delle task force coordinate dall’assessore alla sicurezza, Aldo Milone.
«Cerchiamo di costruire ponti», si sforza Maffei, che sta lavorando all’apertura di un Centro del made in Italy vicino Nanchino. «Anche noi negli anni 60-70 eravamo i cinesi d’Europa». Certo, «preoccupa il nero e la criminalità interna alla comunità, ma c’è un pezzo di seconda generazione che si sta integrando», avverte Maffei. E poi c’è un sistema manifatturiero tricolore da rilanciare con urgenza. «Errori nostri? Ce ne sono stati», ammette Longo, a metafora di molti nostri distretti spiazzati dall’invasione cinese. In questo senso Prato è davvero il frullato caotico di quindici anni di storia industriale italiana.
«Ancora nel 2000 il 50% del valore aggiuto pratese era dato dal manifatturiero. Una quota sovradimensionata». Nel frattempo, chiosa, «non abbiamo tirato fuori i Benetton, i Tod’s, gli Zegna». I brand capaci di imporsi sui mercati con propri prodotti. Un’economia a tratti sapiente, ma fatta essenzialmente da no names. «Facciamo un gran lavoro per il mondo della moda ma non ci viene riconosciuto», prosegue Longo. «La vera sfida è riuscire a trasferire sulla produzione un po’ di quel valore immateriale che si realizza alla fine della filiera». Perche non basta l’aspirina dell’euro debole per ripartire e perchè il futuro della città passa dalla difesa del manifatturiero. Ci sono ancora 16mila persone impiegate nel tessile, più 8mila partite iva.
Per questo «stiamo lavorando sulle reti d’impresa e sulla formazione con il progetto di un Istituto per l’imprenditorialità», conferma Longo. Ma soprattutto, «ad un sistema del fashion sostenibile e ad alta tecnologia. Si chiama Prato distretto verde e ha già 22 aziende certificate. Ne sono sicuro, possiamo farcela…»