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 2010  luglio 07 Mercoledì calendario

LA DOLCE VITA DI ELSA

Era davvero dolce, quella vita? « stata solamente dolce! Quelle estati, le sere in via Veneto…». Perdonateci se interrompiamo subito i ricordi di Elsa Martinelli. Soltanto per qualche riga. Il tempo di capire chi era la ragazza che vedeva lievitare la mondanità romana con i suoi occhi da cerbiatta per nulla spaventata. Era una ragazza molto giovane e molto «anomala»: magrissima, tenacissima, libera, colta, elegante. Già protagonista della moda, già corteggiata dal cinema, diventerà un’icona di stile e un’attrice adorata dai grandi registi. Per questo Oggi l’ha voluta sulla copertina dello speciale dedicato alla Dolce Vita, per ricordare i 50 anni dall’uscita del capolavoro di Fellini. A diciassette anni, per nulla sostenuta dalla famiglia, Elsa aveva lasciato l’Italia per fare l’indossatrice in America. Se a voi occorre uno sforzo di fantasia per immaginare che cosa significasse una scelta del genere negli Anni 50, a lei occorse coraggio. Ma neanche molto: le cose sembravano capitarle in modo naturale. Dopo due mesi a Manhattan era su tutte le copertine dei giornali americani; frequentava locali dove si incontravano Gary Cooper, Ava Gardner, Salvador Dalì, Frank Sinatra o Marilyn Monroe. Racconta che «il cinema non era affatto nelle mie previsioni»; anche questo «capitò»: il primo film importante, Il cacciatore di indiani (con Kirk Douglas) lo girò «per vedere la California, non per fare cinema».
SCOPERTA DA CAPUCCI
Ma torniamo in via Veneto, 50 anni fa. Elsa è molto amica di uno sconosciuto stilista di neppure venticinque anni, Roberto Capucci, un tipo così «avanti», si direbbe oggi, da vedere nella filiforme adolescente il simbolo di una nuova bellezza. Che si dimostrerà assai più longeva del tipo «maggiorata bionda dentro e fuori» che iniziava a farsi largo nella capitale. «Un genio», ricorda la Martinelli. «Lui non usciva mai, stava in casa, disegnava, noi andavamo a trovarlo dopo ore e ore al bar. Quale? Il Doney. Eravamo un gruppo di giovani squattrinati. Un maître, per simpatia, ci lasciava stare a un tavolino, tutti appiccicati… Una sera un cameriere ci disse che non potevamo star sempre lì senza consumare niente allora gli chiedemmo quello che costava meno. Acqua e limone, dieci lire: inventò il ”canarino”»
’SONO STATA FORTUNATA”
Mentre i ricchi… «Bevevano whisky, faceva molto americano. Avevano i ”loro” tavolini, sempre gli stessi. Ma non c’erano grandi bevitori. C’erano grandi personaggi. Via Veneto si animava di registi, produttori, scrittori, intellettuali. In 150 metri c’era tutta l’élite del cinema e del teatro italiano. E c’era una connessione; tutti discutevano, ci si scambiavano idee. Siamo stati molto fortunati a vivere quell’epoca. «Ciascuno era concentrato su se stesso, sul proprio lavoro. Luchino Visconti, Dino Risi, Monicelli, Bolognini, Flaiano… Erano tutti molto seri. Noi ragazze andavamo a teatro, all’Eliseo, con abitini neri e un filo di perle, i ragazzi in giacca e cravatta. Poi, in via Veneto, si discuteva di cinema e teatro fino all’una o alle due (eppure lavoravamo tutti!). Andavamo al Doney per vedere, non per farci vedere. Via Veneto diventò chic anche per gli aristocratici, per quei nobili che avevano sempre fatto vita ritirata nei loro palazzi. Loro se ne stavano nei caffè all’interno per un drink, poi andavano a cena nei club privati tipo il Club 84, che consideravano proprietà privata e dove si entrava solo con lo smoking o l’abito lungo…
RESSA PER I DIVI AMERICANI
«Un giorno, in via Veneto, chiesi chi fosse quel tipo che stava sempre con Graziadei, l’avvocato civilista. Era Roberto Rossellini, che all’epoca cercava di sbarazzarsi di Ingrid Bergman… Un’altra volta mi indicarono Moravia. E io: ”Quello che ha scritto La romana?”. Gli amici erano stupiti che l’avessi letto. Ma io avevo letto di tutto: mio padre riempiva la casa dei libri trovati sulle bancarelle del lungotevere…». E sul Tevere cala Hollywood. «Sgomitavano, bevevano, attiravano folla… Alle star di Hollywood non pareva vero arrivare a Roma e scatenare la ressa: in America non ti guarda nessuno. Se ne fregano dei divi. Quando venne a Roma per la prima volta Marlon Brando, in via Condotti non si riusciva a camminare. Ma poi c’era l’effetto Un marziano a Roma: ha presente il racconto di Flaiano? Dopo tre giorni non se lo fila più nessuno. ”Ahò, hai visto Brando?”, ”Uff, sì, va be’, l’ho visto pure ieri!”». «E i nobili, quelli che una volta se ne stavano nei palazzi, facevano a gara per prestarli al cinema, quei palazzi. O per comparire in un film, o per diventare registi o per conquistare una starlette. Via Veneto diventò un inferno. Quando iniziammo a vedere questa confusione, in buon ordine ci ritirammo. Chi andava da Rosati, in piazza del Popolo, chi da Canova… Noi giovani squattrinati nelle case di chi ci invitava».
LA FINZIONE SI FA REALTA’
Fuori esplodeva la Dolce Vita, quella che Fellini «da genio qual era, aveva inventato nel film. Era un mondo immaginario, il suo: finché non uscì il film, non c’era un paparazzo in via Veneto. Si discuteva di cinema e teatro. Ma Fellini aveva capito che intorno a quel mondo c’erano pettegolezzi, curiosità». E con la Dolce vita il mondo immaginario diventò reale.