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 2010  luglio 04 Domenica calendario

QUANDO HOLLYWOOD TENTO’ CARUSO

Nel 1918, gli italiani d’America possono vantarsi di un doppio record difficilmente eguagliabile: è italiano l’immigrato più famoso di tutti gli Stati Uniti, quell’Enrico Caruso che da 16 anni spopolava ogni volta che si esibiva al Metropolitan, ma sono anche italiani gli stranieri guardati con maggior disprezzo e rancore (tanto che solo due anni dopo, nel 1920, il Governo di Washington impose delle pesanti limitazioni all’arrivo dei nostri compatrioti).
 in questa situazioni, tra deliri melomani e odi razziali, che la casa di produzione Famous Players diretta da Jesse Lasky cerca di convincere Caruso a firmare un contratto in esclusiva per esordire al cinema. C’era riuscita con Sarah Bernhardt, perché non tentare il colpo anche col tenere italiano? Che di fronte all’offerta, per l’epoca davvero eccezionale, di 200 mila dollari accetta: sei settimane di ripresa a New York durante le quali interpretare due film. Ed è in questa situazione, dove gli exploit al Metropolitan vanno di pari passo con le accuse più infamanti alla nostra comunità, accusata di connivenza con i criminali della Mano nera, di imporre alle proprie donne matrimoni combinati o di risolvere i problemi di gelosia a coltellate (a leggere i giornali dell’epoca), che Caruso mette in gioco la sua popolarità e soprattutto la sua «italianità» per difendere o almeno migliore l’immagine cinematografica dei suoi concittadini.
Il contratto prevedeva due film, e la sceneggiatrice Margaret Turnball scrive due storie legate all’immagine pubblica e popolaresca del tenore: in My Cousin s’inventa di uno scultore di Little Italy che si vanta di essere il cugino di Caruso per convincere la bella Rosa a sposarlo (anche perché il padre di lei spinge invece per un più ricco e «borghese» droghiere), in The Splendid Romance trasforma Caruso nel «principe Cosimo», capace di rinunciare al titolo e alla moglie per emigrare in America e coltivare il suo amore per la musica, oltre naturalmente a consolarsi con una nuova fiamma (sfruttando la fama di donnaiolo che Caruso non aveva mai negato).
Perché il secondo film non uscì mai negli Stati Uniti ma solo nell’America Latina e in Inghilterra (andando poi perso), è un mistero ancora da risolvere; perché il primo fu ritirato dopo la prima e in parte rigirato lo svela una mostra fotografica («Starring Enrico Caruso. Il tenore nel cinema muto», fino al 29 ottobre, Sala espositiva della Cineteca) inaugurata in concomitanza con la ventiquattresima edizione del Festival del cinema ritrovato, che ha chiuso ieri i lavori.
Tutto gira attorno a un baffo e a un ritratto troppo poco accattivante dell’immigrato Tommaso Longo, lo scultore italiano (interpretato da Caruso) che usa la parentela con il cantante Cesare Caroli (anche lui naturalmente interpretato dal tenore) per far colpo sulla fidanzata. Il «ritocco» l’ha scoperto Giuliana Muscio, che ha curato la mostra di Bologna: forse non è opera autografa della mano di Caruso, ma è certo che il più grande cantante del mondo (per quei tempi e forse non solo) si dimostrò molto poco contento di come era venuto il suo primo film e ottenne di rigirare le scene che lo vedevano nei panni del povero immigrato di Little Italy. Con l’aggiunta di un paio di baffi per «conferirgli quella bonomia (sempre stereotipata ma riscaldata dall’interpretazione naturalistica del tenore) che troviamo nel film attuale».
Che il nuovo «trucco» fosse giustificato dal bisogno di rendere più immediatamente simpatica l’immagine degli italiani in America, lo confermano anche altri elementi del film (le scene coi marinai, le bandiere alla festa di Little Italy, l’uso di attori provenienti dal teatro degli immigrati come William Ricciardi) e una inequivocabile battuta impressa in una didascalia: «Dormirò bene stanotte sapendo che i miei compatrioti sono orgogliosi di me!». Ma sono proprio le foto di scena che ci testimoniano da una parte l’impegno del tenore napoletano per i suoi connazionali e dall’altra il rischio molto presente nel cinema di allora che gli italiani venissero descritti solo come dei poco di buono più abili col coltello che con il mandolino.
Paolo Mereghetti