Paolo Foschini, Corriere della Sera 04/07/2010, 4 luglio 2010
HAITI SI AFFIDA SOLO AI VOLONTARI - A
Port au Prince c’è la rabbia repressa, per il momento. E non durerà: «Questa città è una polveriera». Ma c’è anche la speranza portata dai volontari. A sei mesi dal terremoto, Haiti vive una situazione complessa: nonostante gli aiuti internazionali, non esiste un piano di ricostruzione globale.
All’inizio si vedono solo gli occhi di un uomo. Poi la faccia. Si chiama Taylor Lagrange: «Ho 43 anni, mia moglie e cinque dei miei figli sono morti il 12 gennaio. Gli altri tre vivono qui con me». E con i topi, sotto un patchwork di tela bianca e plastica blu in Champs de Mars, la piazza principale di quel che prima era Port-au-Prince. Zoom indietro.
Ora si vede che attorno a Taylor sono in sette-otto. Come lui hanno appena finito di veder perdere l’Argentina contro la Germania dentro la piccola tv a pile che ora invece ripropone il proclama lanciato dal presidente André Préval un mese fa: «Champs de Mars serve alla città, entro la fine dei Mondiali la ripulirò e darò un rifugio sicuro a tutti quelli che ora ci vivono». Taylor scuote la testa e ride, mentre lo zoom continua ad allargare dall’alto.
E infatti adesso Taylor non è più che un puntino fra i trentamila come lui, tutti ancora lì in quella piazza nonostante il Mondiale sia ormai oltre i quarti: tutti ancora accampati e fradici a seconda del tempo, se non è pioggia è sudore, con le macerie delle loro case più o meno dov’erano quando sono crollate.
E ora è una ripresa aerea, che finalmente mostra tutta quanta la città per com’è oggi: senza più morti per terra, ma in una miscela di traffico e sfollati ovunque, cani e bambini che frugano, ancora montagne di calcinacci che ormai bisognerebbe farle entrare nelle mappe e’ soprattutto’ una distesa di accampamenti ininterrotta dalle colline all’orizzonte, con l’acqua razionata in due secchi al giorno per famiglia, dove le tendopoli come Champs de Mars e anche peggio sono in realtà novecento e quelli come Taylor un milione, contando anche chi grazie a un parente in campagna ha potuto almeno lasciare la città. Haiti sei mesi dopo. Dove la promessa di nuove case costruite sulla roccia sta riuscendo solo, almeno per ora, a trasformare le tende in castelli di rabbia.
Rabbia compressa, per il momento. Ma che secondo Aslam Khan, arrivato qui in marzo da Islamabad come dirigente del World Food Program dell’Onu, esploderà tutta insieme appena finiti i Mondiali: «Questa città è una polveriera». Con sotto una miccia intrecciata di burocrazia mondiale, interessi locali, litigiosità tra soccorritori: un piano di ricostruzione globale non c’è ancora, il prezzo della terra lievita quotidianamente come quello dell’acqua, il governo del Paese è un fantasma che finora si è distinto solo per decreti come quello che due mesi fa ha ordinato allo stesso Wfp di interrompere la distribuzione di cibo: «E mi chiedo tuttora perché’ ragiona Khan’ visto che stiamo continuando a portarne qui a tonnellate». Motivi di ordine pubblico, era stata la giustificazione formale del governo. Il risultato è che adesso se vuoi mangiare te lo compri o niente. A meno che non incappi in una delle mille (mille davvero, non per dire) associazioni umanitarie grandi e piccole piovute qui da tutto il mondo e che, pur pestandosi spesso i piedi, qualcosa comunque fanno.
la rabbia che a Port-au-Prince ha preso il posto del dolore, divenuto ormai routine quotidiana. La bambina morta una settimana fa per un mal di pancia affrontato con una pozione vudu della zia. Il dodicenne ammazzato in settimana da un coetaneo tra le baracche di Cité Soleil: in effetti avevano litigato, perciò quello gli ha sparato. Succedeva anche prima del terre-
moto, non c’è motivo per cui adesso dovrebbe andar meglio. La buona notizia, secondo la contabilità ufficiale del disastro, è che i morti per dissenteria da acqua sporca sotto una tenda o per pallottola in una bidonville non sono tecnicamente catalogabili come «vittime del sisma»: e così il conto definivo di queste ultime, già in marzo, ha potuto essere certificato una volta per tutte in 222.570 esatte. Salvo quelle ancora sepolte sotto le macerie più pesanti. Intanto i superstiti, dalle loro tende, guardano il cielo e aspettano il peggio: la stagione delle piogge è andata, ora inizia quella dei cicloni.
E dire che qualcuno a casa ci potrebbe anche tornare. In teoria. La casa di Normil Lionel, che adesso vive da profugo in una tendopoli verso il quartiere Tabarre, per esempio è stata dichiarata «agibile». Solo che Lionel era in affitto, come il 60 per cento della gente di qui. Di mestiere scavava pozzi d’acqua, ma ora nessuno lo chiama più: «Niente lavoro niente soldi – dice’ e il padrone di casa invece li vuole, quindi sto in tenda».
Del resto neppure il governo dell’ autoprorogato presidente Préval, promesse a parte, sta facendo fa grandi sconti alla sua gente. Nelle scorse settimane ha imposto una serie di norme rigidissime sull’edificabilità dei terreni pubblici fuori città: posto che il centro è fatto di colline con la stabilità orografica di uno scivolo unto, e si è visto, è appunto sulle spianate là fuori che ricostruire era sempre stato più facile. Invece adesso non lo è più: o compri la terra o non metti una pietra.
Il problema è che alla gente, anche sotto una tenda, le notizie arrivano. E così la gente di Haiti sa benissimo che il mondo intero, dal 12 gennaio a oggi, tra governi e privati ha messo nelle mani dell’Onu una busta con dentro – già pronti in contanti, non sulla carta’ tre miliardi e duecento milioni di dollari apposta «per l’emergenza», più altri 10 miliardi promessi invece a chi governerà il Paese nei prossimi anni. Il tutto a fronte di un danno complessivo stimato in otto miliardi. Peccato che finora, da questa nuvola sempre più gonfia di soldi, addosso agli haitiani siano piovuti solo spiccioli e spesso neanche quelli: dei 52 milioni di dollari raccolti dalla sola fondazione Clinton-Bush, per dire, la gente di Haiti ne ha visti spesi a tutt’oggi appena sette. La stessa cifra scucita per allestire vicino all’ambasciata americana il campo in container e prefabbricati dove ora alloggia il contingente giordano dell’Onu, i cui funzionari sono pagati 13mila dollari al mese, più 300 al giorno come diaria. Stipendio legittimo: ma è evidente che gli haitiani strizzati nel fango dell’accampamento accanto ci vedano un certo squilibrio rispetto a loro.
Certo, non è che non sia stato fatto niente. La vita degli haitiani della capitale, terremotati anche prima del terremoto, in qualche modo è comunque ripresa. Giovedì scorso la ristrettissima élite dei ricchi ha potuto persino permettersi di andarsene all’hotel Oloffson per sentire il concerto dei Ram, il gruppo haitiano che invade ogni radio di qui; chi ha più dei tre dollari necessari per una birra può farsi senza problemi un Barbancour cinque stelle al Contigo di Petionville, o stordirsi di musica techno al Barak, o ballare una sera intera di sensualissima «compa» caraibica sulla pista del Karamel. Naturalmente lasciando all’ingresso la pistola: «Solo un pazzo’ ti dice chiunque – andrebbe in giro di notte senza». Ma era così da sempre, il terremoto in questo non ha cambiato niente.
Poi però c’è il resto. I bulldozer della portaerei italiana Cavour hanno effettivamente contribuito a liberare molte strade dalle macerie, così come i mezzi degli americani e degli altri: le vie sono sostanzialmente libere, si circola, in fondo è quasi meglio che all’Aquila. Ma di caterpillar veramente pesanti in giro non se ne vedono più e il grosso delle case crollate è ancora lì. Drappelli di operai haitiani pagati coi fondi del «cash for work» dalle associazioni più varie, compresa una «Islamic relief» che raccoglie i pochi musulmani del Paese, continuano a spalare calcinacci a forza di braccia. Una ruspa locale costa 500 dollari l’ora, un camion 75 a viaggio, e qui sono un capitale. «Il Pakistan terremotato del 2003 era ridotto assai peggio’ dice ancora Aslam Khan, quello dell’Onu’ eppure in meno di quattro mesi fu ripulito». Per dire quanto conta, rispetto a un Paese con l’atomica, un buco come Haiti.
Il confronto va meglio su altri fronti. Nicola Mangialavori è il comandante dei 130 carabinieri inviati qui da due mesi per addestrare la polizia locale e «rispetto all’Afghanistan – dice – non c’è paragone: qui almeno la polizia sa leggere e non ci sono clan, fondamentalismi, ideologia». In compenso c’è la solita corruzione a mille: «Le famiglie dei poliziotti con cui lavoriamo vivono in condizioni tremende negli stessi slum che noi e loro dovremmo ripulire dai criminali. Come si fa ad aspettarsi che non li avvertano prima di un blitz?».
Intanto il 90 per cento dei bambini delle scuole private ha ripreso le lezioni. Ma sono solo quelli che possono permettersi una retta annua fra i 500 e gli 800 dollari: uno sputo. Il resto deve dire grazie alle scuole di strada delle Ong, che riescono a raccoglierne 35 su cento. Gli altri, nelle bidonville come La Saline, Cité Soleil, o Pelé, possiedono piuttosto una pistola. Fin da quando hanno dodici, dieci, anche otto anni. E la usano. Non raramente fatti di cocaina: perché magari l’acqua non c’è, ma la polvere chissà perché la trovi sempre. In attesa che gli adulti incaricati di decidere qualcosa la decidano.
A cominciare da chi dovrà guidare il Paese: le elezioni generali, dopo che il presidente Préval si era autoprorogato il mandato fino all’anno venturo, sono state finalmente fissate per il 28 novembre prossimo. Ma il Consiglio elettorale provvisorio che deve organizzarle (non c’è più neppure un’anagrafe, il palazzo è crollato) è tuttora paralizzato perché uno dei suoi membri è accusato di corruzione e né Préval né il suo primo ministro Bellerive’ nonostante le pressioni per la trasparenza reiterate fin dalla Commissione esteri del senato Usa – hanno finora sentito il bisogno di farlo dimettere. Non a caso, fino a qualche settimana fa, a Port-au-Prince c’erano almeno dieci manifestazioni di protesta al giorno. Anche violente. Poi sono cominciati i Mondiali.
Ed è stato come un anestetico: le proteste sono letteralmente scomparse, i ragazzi vanno in giro con la maglia di Messi, ovunque ci sia una radio o una tv’ attaccata allo stesso generatore dove negli slums puoi ricaricare il cellulare per mezzo dollaro – c’è un crocchio incollato solo alla partita del giorno e la prima domanda che ti fanno quando vedono che sei italiano è come mai Lippi non ha messo in squadra Balotelli.
Solo che all’ultima partita dei Mondiali manca poco, e la fine dell’anestesia coinciderà con l’arrivo dei primi uragani: nessuno si sente di scommettere su cosa faranno quel giorno migliaia di haitiani risvegliandosi stanchi, arrabbiati, dentro una tenda inzuppata, e senza più niente da perdere.
Paolo Foschini